SAPERE PER DECIDERE
CONTROINFORMAZIONE LIGURE
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Numero 11, 15 novembre 2023
Indice
- SPIFFERI
- C’È POSTA PER NOI
- ECO DALLA RETE
- ECO DELLA STAMPA
- LA LINEA GENERALE
- AMBIENTE
- POLITICA E ISTITUZIONI
- SPAZIO E PORTI
- SALUTE E SANITÀ
- FATTI E MISFATTI
- UNO SGUARDO DA LEVANTE
- UNO SGUARDO DA PONENTE
- PASSEGGIATE D’ARTE
- GENOVA MADRE MATRIGNA
SPIFFERI
I vestiti nuovi dell’imperatore per Toti e Bucci (da Hans Christian Andersen)
Incontrando e ascoltando nostri concittadini poco interessati ai fatti della politica locale, scopriamo con un certo sgomento che continua a funzionare il gioco delle tre carte con cui Toti e Bucci si accaparrano consensi grazie alla simulazione del fare. Il Presidente di Regione Liguria puntando sull’intrattenimento e il Sindaco di Genova teatralizzando lo stupefacente. La frase che ricorre è “almeno questi si danno da fare”. A riprova che sono stati i loro predecessori (burlandiani e dintorni) a regalarci i due emeriti fumisti. Resta il fatto che alla domanda successiva – “ma che cosa hanno fatto” – come risposta si avrà solo il silenzio. Insomma, Bucci e Toti sono due fuochi fatui. Eppure sentiremo mai una voce innocente che – come nella favola – ce li indichi dicendo: “ma sono nudi”?
In attesa di una visita in ASL4 (e non solo lì) c’è tutto il tempo per crepare
Da tempo lo sosteniamo: la gestione regionale della Sanità pubblica è disastrata, forse con uno scopo ben preciso, favorire quella privata. È delle settimane scorse la denuncia di un consigliere d’opposizione (evviva, ne esistono ancora. Credevo fossero manichini) che la visita per una colonscopia alla ASL 4 richiede 626 giorni, quasi due anni. Per chi pensasse che è un problema di carattere nazionale, si ricorda che la Sanità è di competenza della Regione. Mancano figure professionali e di supporto, e ne mancheranno sempre di più, perché questa gestione fa passare la voglia perfino a chi vorrebbe rimanere. Dati alla mano. Qui invece si continua con carrozzoni inutili (leggi Alisa, doppione delle ASL); frutto di incapacità o nati per scopi che con la sanità non hanno niente a che fare.
Perché Marco Bucci taglia i finanziamenti al Festival della Scienza
Seppure da tempo denunciamo il declassamento del Festival a fiera locale, ci è chiaro che ciò dipende anche dalla moria di fondi per competere con analoghe manifestazioni nazionali concorrenti. E perché il nostro sindaco privilegia boiate VIP come Ocean Race o strapaese dei jeans? Forse perché nel suo passaggio impiegatizio americano ha interiorizzato l’orientamento anti-scienza della destra repubblicana; finanziata dal Big Business dagli anni 20, quando la ricerca cominciò a porre questioni (dal buco d’ozono al climate change) che imponevano regolazioni pubbliche. Con gli arrampicatori sociali pronti a farne proprie le tesi sulla scia del carrierista Reagan. Nel timore di ricadere nel popolo, da cui provengono. Come quei uscito dal pelago a la riva/ si volge a l’acqua perigliosa e guata.
C’È POSTA PER NOI
Riceviamo dal nostro caro Angelo (Ciani, l’amico informatico che ci mette in condizione di uscire ogni quindici giorni col nostro magazine SxD Controinformazione Ligure):
Allerta! Allerta
Un affezionato lettore, coordinatore del Comitato Scuola e Costituzione, interviene a proposito della solita
“Liguria meravigliosa” (?)
Le imperdonabili cecità e disinteresse di un elettorato cornuto e mazziato ha reso possibile l’ineffabile operato dei nostrani amministratori di destra (regionali e provinciali e comunali) che hanno arrecato, arrecano e arrecheranno gravi conseguenze per i cittadini liguri, i cui figli e i figli dei loro figli pagheranno il prezzo più iniquo. Siamo ormai stupidamente avvezzi alle macerie della sanità pubblica e dei servizi sociali, all’imperdonabile disinteresse nei confronti dello stato in cui versano le scuole liguri e a tanti altri problemi che gravano sui nostri territori. E tutto ciò, mentre alcuni politici beneficiano di ricchi e “leciti” finanziamenti da parte dei soliti noti. Matteo Viviano
Il nostro collaboratore Riccardo Degl’Innocenti ci scrive da Barcellona:
Catalogna Dreamin’ 1
A Barcellona i cassonetti “intelligenti”, adottati in pompa magna a Genova, sono semplicemente cassonetti, liberi, per cittadini intelligenti: costano molto meno, meno costi di manutenzione e gestione. E sono utilizzabili da tutti.
Catalogna Dreamin’ 2
Mentre a Genova si dichiara che in Piazza Caricamento non saranno installate le panchine per evitare “bivacchi e spaccio”, almeno fino a quando la polizia locale non avrà completato “l’opera di bonifica da clochard e spacciatori”, a Barcellona, nelle aree pubbliche create dalla pedonalizzazione dei quartieri del centro, convivono i dehors commerciali privati, le frequentissime e confortevoli panchine pubbliche e di recente sono stati installati tavoli e panche in cui tutti i cittadini (anche i clochard) e i turisti possono sedersi e, se lo desiderano, consumare bevande e cibi di asporto o portati da casa.
Riccardo Degl’Innocenti
ECO DALLA RETE
I nostri amici Grasso e Moiso, su il FattoQuotidiano del 2 novembre, ci informano che la nuova presidenza di Italia Nostra è partita all’attacco sulla spinosa questione dell’edificanda diga nel porto di Genova, supremo monumento alla megalomania del nostro sindaco.
Diga di Genova, appalto sospetto. Atti trasmessi alla Procura europea
«Il sospetto è che dietro al principale appalto affidato con fondi del Pnrr possano nascondersi varie irregolarità: nella progettazione e nell’affidamento dei lavori di realizzazione. La maxi diga di Genova, secondo due diversi esposti, sarebbe un’opera faraonica (1,3miliardi di euro) costruita con fondi pubblici che rischierebbe però di favorire soprattutto due terminalisti privati, Gianluigi Aponte e Aldo Spinelli. È quanto denuncia Italia Nostra in un esposto articolato che, dopo essere stato valutato dalla Procura di Genova, è stato ritenuto di interesse tale da essere trasmesso alla Procura europea: le irregolarità ipotizzate, infatti, riguarderebbero fondi erogati dall’Unione europea. La competenza a indagare sarebbe dunque dell’ufficio europeo, guidato in Italia dal procuratore Andrea Venegoni. La Procura europea (Eppo) è un organismo sovranazionale creato nel 2021. Una nuova entità che ha competenza su frodi transfrontaliere, grandi truffe comunitarie e malversazioni nell’utilizzo dei fondi del Pnrr. Ogni Paese contribuisce con proprio personale all’Eppo, che nel caso italiano è già incappato in una forte polemica: con una lettera indirizzata alla giudice romena Laura Kovesi, capo supremo dell’ufficio, 14 dei 20magistrati italiani distaccati alla Procura europea hanno contestato la nomina del nuovo coordinatore dell’ufficio italiano proposto dal governo. Una protesta sul metodo: dei tre pretendenti, Venegoni sarebbe stato il magistrato con la valutazione più bassa, una scelta che secondo chi protestava avrebbe messo a repentaglio l’autonomia dell’organo. Il caso della diga è stato affidato ai pm torinesi Stefano Castellani e Adriano Scudieri. L’affidamento dei lavori per il rifacimento della diga di Genova era già stato oggetto di rilievi dell’Anac. In particolare, in corso d’opera i due consorzi privati che partecipavano al bando (We- Build ed Eteria), avevano ottenuto che l’Autorità portuale riscrivesse alcune regole dell’affidamento, in modo da poter scaricare gli extra costi dell’opera sull’affidatario, dunque sulle casse pubbliche».
Marco Grasso e Andrea Moizo
ECO DELLA STAMPA
Il numero 5/2023 di MicroMega ospita l’annuale Almanacco delle Scienza, tra cui il saggio di Nico Pitrelli e Mariachiara Tallacchini, entrambi docenti della Scuola Internazionale Superiore di Trieste, di cui pubblichiamo alcuni stralci; utili per supportare una riflessione sul rapporto tra ricerca e istituzioni in chiave genovese e ligure.
Il posto della scienza in una società democratica
«Il problema è un’errata visione dei rapporti tra scienza e democrazia, una prospettiva che non tiene conto della complessità di una serie di domande fondamentali, drammaticamente urgenti per le società democratiche contemporanee, caratterizzate da un’alta densità di sapere scientifico-tecnologico: come fa il potere a conoscere? Cosa se ne fa il potere di questa conoscenza quando deve decidere? Che ruolo hanno i cittadini in questi processi? Chi sono gli esperti? Qualche anno fa nel nostro Paese circolò l’espressione di grande successo mediatico secondo cui “la scienza non è democratica”. E come non dare ragione a tale affermazione se il corollario argomentativo a suo sostegno era così delineato: “credete forse che la velocità della luce possa essere decisa per alzata di mano?”. No, nessuno lo crede. Il punto è che questo non c’entra molto con come si costruiscono effettivamente le scelte di policy basate sulla conoscenza scientifica. Si allude infatti a molteplici questioni legate sia al modo in cui lo Stato regola i finanziamenti alla ricerca, sia al modo in cui le istituzioni utilizzano dati e conoscenze scientifiche per prendere decisioni pubbliche.
Gli ambiti di riflessione più recenti dei rapporti tra scienza e democrazia delineano la necessità di ‘democratizzare’ la scienza e di costruire istituzioni che garantiscano in modo più trasparente e qualitativamente migliore l’acquisizione al tavolo dei decisori politici di tutta la conoscenza rilevante».
GLI ARGOMENTI DEL GIORNO
LA LINEA GENERALE
Una visione d’insieme sullo stato dell’arte regionale
L’opportunità della conoscenza ignorata da chi governa la Liguria
La nostra business community, intimamente sintonica con la maggioranza che governa la Regione e le principali città liguri, ama parlare di “treni che passano” quale metafora di un ritrovato modello di sviluppo locale grazie all’attivismo apparente dei vari Toti, Bucci, Peracchini e compagnia. A onore del vero un convoglio era passato dalle nostre parti con la nascita nell’alveo delle Partecipazioni Statali della prima industria italiana della conoscenza: l’Italimpianti/Iritecna, la società di engineering che collezionava commesse internazionali grazie a una formidabile concentrazione di colletti bianchi; che indicavano il nuovo modo di fare impresa, dopo le Grandi Fabbriche per produzioni di base della galassia IRI. Poi il treno deragliò alla svendita di quel patrimonio prezioso a chi ne fece un immangiabile “spezzatino”. Resta il fatto che, se la nostra area vuole marciare fuori dalla crisi di sviluppo per la competitività che la attanaglia, l’unica soluzione è quella di affiancare alla gamba portuale, ancora robusta e (fortunatamente) funzionante, una seconda capace di recepire il nuovo paradigma tecno-economico legato al sapere e alla conoscenza innovativa. Un problema eminentemente politico. Tra l’altro il motivo per cui abbiamo pubblicato uno stralcio del materiale presente nell’Almanacco della Scienza di MicroMega, in cui il problema della ricerca viene messo in relazione con le policies dedicate e inserito in una cornice di consenso (se non l’avete ancora fatto, andate a leggervi quelle poche righe). Che poi è il secolare tema delle “comunità democratiche della conoscenza”, promosse dal filosofo John Dewey, considerato dagli americani il vero fattore che determinò il secolo stelle-e-strisce e l’eccellenza economica degli States. Qualcosa di ben più serio delle sagre di paese sui jeans o delle sceneggiate da capitali di qualcosa, dell’ingaggio come testimonial di mature ex-veline o altri sprechi di pubblico denaro.
Perché qui si parla di promuovere una politica industriale a base territoriale definendo linee di indirizzo per i centri di ricerca che vi operano. A partire da quell’Istituto Italiano di Tecnologie che “strippa” di soldi pubblici e non si sa come li spende. Che va riportato alla sua statutaria missione del trasferimento tecnologico. Magari spiegando ai suoi ricercatori in fregola di giocare agli scienziati quale è lo specifico IIT: la tecnologia; che non è la stessa cosa della scienza, proprio per la sua propensione eminentemente pratica.
Pierfranco Pellizzetti
Lettera aperta al presidente del Festival della Scienza
Egregio Marco Pallavicini,
ci siamo scontrati domenica 5 novembre alla vostra conferenza di chiusura; quando ha considerato un affronto intollerabile la mia reazione critica al trionfalismo di maniera, sparso a piene mani, sull’andamento della ventunesima edizione di una manifestazione che costituì il fiore all’occhiello per Genova; la nostra città che ormai da tempo vegeta in un grigiore strapaese, malamente camuffato con la fumisteria del fenomenale. Grigiore ambientale, cui l’evidente declino della manifestazione di fine ottobre, da must nazionale e internazionale a iniziativa di respiro locale, finisce per fare da pendant, riscontro e conferma.
Sinceramente mi ha stupito il ricorso al giustificazionismo più smaccato, che negava la guerra non dichiarata ma mortale da parte del sindaco Bucci sottraendovi fondi per le sue iniziative megalomani quanto strampalate (come il contributo di Iren che vi era stato destinato), quando indicavo la prima causa del declino del Festival nell’anemia finanziaria di cui è affetto. So bene che – come ci ha insegnato il marchese d’Holbach nel suo Saggio sull’arte di strisciare, “il cortigiano bene educato deve avere uno stomaco tanto forte da digerire tutti gli affronti che il suo padrone vorrà infliggergli”. Ma qui non sono in ballo posizioni personali quanto la sopravvivenza di un bene civico, bisognoso per rinascere che si dica la verità, non pompierismi volemose bene e salamelecchi al contributo prezioso di Tursi (ma certo: l’ennesima spintarella sul piano inclinato verso la marginalità): il Festival rinascerà solo grazie a una vasta coalizione civica che blocchi le indifferenze fattesi spoliazioni di cui è stato vittima e riattivi quella sponsorship che lo aveva fatto ascendere a unicum tra i mille festival di qualcosa del calendario evenemenziale italiano.
Convinto come sono che lei non coltivi aspirazioni per posizionamenti nel dopo, ora che giunge a fine mandato dovrebbe parlare liberamente e denunciare lo stato reale della situazione. Anche perché solo un’inversione di tendenza annunciata potrà candidare alla sua successione chi intenda impegnarsi per una vera rinascita; non un re travicello burocratico che vegli sull’eutanasia di un evento giudicato ingombrante dal tirannello di turno. Come disse Étienne de la Boétie, “siate risoluti a non servire più ed eccovi liberi”. Appello che non estendo al suo partner ridens Alberto punchingball Diaspro, ansioso solo di sfuggire alla domanda su cosa si fa in IIT.
Pierfranco Pellizzetti
Risponde Marco Pallavicini a stretto giro:
Caro Pierfranco
Quello che non mi piace è il prendersela col Festival, che ancora oggi RESTA una delle poche manifestazioni belle e di successo, malgrado lo scarso supporto che io per primo ho più volte denunciato; se vuoi dire che all’inizio era ancora meglio, può darsi, ma nel grigiore che tu rilevi mi pare resti una perla da difendere e non da sminuire Proprio perché non ho alcun interesse di posizionamento per il dopo (faccio un altro mestiere in larga misura non a Genova) non vedo però perché dovrei entrare su polemiche politiche
Hai diritto di farlo tu, naturalmente. Cordialmente. Marco
Ma se si ama la vita tranquilla e non si vogliono beghe col potere politico non si va a fare il presidente di un Ente che va difeso dalle mire “estrattive” della politica (oltre che da un fisiologico declino abbastanza palese). PFP
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Poi arriva Alberto Diaspro, presidente del Consiglio Scientifico del Festival:
Alle domande ti ho risposto- già una volta ma temo che continuerai finché non ti risponderò quello che ti vorresti sentir dire. Un po’ mi spiace perché mi piacciono molti dei tuoi scritti. Buone cose. Alberto
Ma quando mai hai risposto sull’impegno per la fertilizzazione territoriale di un Istituto che si fa i c. suoi con tutti i soldi che prende dallo Stato e di cui non risponde a nessuno (si chiama gestione democratica dei finanziamenti, come spiega l’ultimo almanacco della scienza di MicroMega). Io non so se ci sei o ci fai. Ancora domenica scorsa mi magnificavi l’engagement IIT con una multinazionale (Toshiba?) di nessuna significanza in quanto a ricadute locali. Puri “effetti speciali” alla Cingolani. Stammi bene. Pierfranco
⁕ ⁕ ⁕
Caro Pierfranco, scusa ma perché dovrei cimentarmi nella risposta in qualcosa che non conosco. Ho risposto alla tua lettera in passato. La domanda la devi fare al Presidente di IIT oppure al Direttore Generale o al Direttore Scientifico. Io per scelta quarantennale mi occupo di ricerca di base e applicata, ho tradotto alcuni risultati in start up e in nuovi prodotti ma non è il mio primario interesse. Io voglio capire il ruolo degli stati di condensazione della cromatina in relazione allo sviluppo o meno di Tumori e uso la mia migliore expertise che riguarda i campi elettromagnetici, la luce e la Microscopía ottica con cui oggi ho raggiunto livelli impensabili qualche anno fa. Questo è il mio terreno oltre a quello della didattica dov’è cerco di trasferire quello che ho imparato dalla ricerca. Quello che faccio è a disposizione della comunità scientifica e di tutti. I fondi che acquisisco e uso producono conoscenza e avanzamento scientifico e tecnologico. Onestamente non mi pare di fare poco. Non mi va essere tirato a parlare o speculare su argomenti di cui non ho la padronanza. Leggo con piacere i tuoi articoli e trovo interessanti molti dei tuoi ragionamenti ma il mio terreno è un altro. Mi spiace deluderti ma ti pregherei di non farmi oggetto di commenti come ridens o pungiball; non lo trovo corretto e io non mi permetto di farlo nei tuoi confronti, spesso anche se a te non serve sicuramente mi sono trovato a difenderti ma davvero se ci sono degli aggettivi che ti piace affibbiarmi cerca di capire se la cosa mi può disturbare o meno. Ora mi trovo in viaggio nell’attesa di un decollo, avrei probabilmente potuto usare il mio tempo in modo migliore e così avresti potuto fare tu. Un saluto. Alberto
Capisco che sei in ben altre faccende affaccendato. Tuttavia mi permetto ancora una volta di ricordarti che l’Istituto dove lavori ha come missione statutaria la fertilizzazione del nostro sistema di impresa attraverso il trasferimento tecnologico. Ma guarda un po’! PFP
AMBIENTE
La fragile bellezza di uno spazio sotto costante attacco
Cronaca settimanale della guerra dichiarata dal Comune ai nostri alberi
6/11/2023 – Alè alè, anche oggi abbiamo mandato in bianco Aster, l’azienda comunale che dovrebbe operare nei servizi di pubblica utilità. L’albero della spianata di castello non sono riusciti a spianarlo in somma urgenza. Non vogliono mettersi in testa che gli alberi con problemi si curano, non si tagliano. Capiscono solo che curarli costa più che abbatterli.
7/11/2023 – Ci hanno minacciato di tutto, ma visto che noi non mollavamo e hanno paura di finire davanti a un giudice in contraddittorio, dove sanno che perderanno sicuramente, se ne sono andati con la coda tra le gambe. Marameo. Se si presenteranno con un albero dello stesso tipo e grandezza di quello abbattuto, in ottemperanza al regolamento del verde, noi ce ne andremo. Il fatto è che ovunque tagliano e non ripiantano. È già successo molte volte in questo mese. Comunque noi saremo lì anche domattina. Venite e non lasciateci soli. Venite, ditelo ad altri, non lasciateci soli.
8/7/2023 – E poi, mostrando chiaramente che cosa sono e in che mani siamo, appena ce ne siamo andati, sono sbucati dalla caverna in cui si erano nascosti e hanno tagliato tutto il rimanente. Ma noi ci siamo e non ci arrendiamo. Domani saremo ancora lì. Se qualcuno riuscirà a procurarselo pianteremo un nuovo albero. Venite non diamogliela vinta. Domani funerale dell’albero.
9/7/2023 – Continuano a tagliare alberi e a non ripiantarli o a ripiantarli piccolini, come se i nostri polmoni si potessero restringere per fare risparmiare soldi a Bucci e compagnia cantante. Manifestazione presidio in corso Firenze altezza villa Piaggio…… Ci tengono nascosto il piano degli abbattimenti, non hanno un piano del verde da almeno sei anni, continuano a violare il loro stesso regolamento comunale del verde; nel costante silenzio assenso della Sovrintendenza. Hanno tagliato e non ripiantano più di 1.300 alberi in sei anni. È una barbarie. Ma perché? Di certo per ragioni economicistiche: risparmiare sulle manutenzioni di questo prezioso capitale arboreo. Ma un uccellino tuitta un altro motivo: drammatizzando la faccenda, Aster lucrerebbe il sovraprezzo per l’urgenza.
Andrea Agostini
Una testimonianza di persona informata in materia – Maria Foti -andata da qualche mese in pensione dopo una vita dedicata all’insegnamento negli istituti genovesi.
Le strutture scolastiche genovesi sono al collasso
Piove. È dalla seconda metà di ottobre che piove. Normale, siamo in autunno. Quello che invece normale non è, ma che sembra ormai far parte della nostra quotidianità, sono le infiltrazioni d’acqua all’interno degli edifici scolastici. Si, piove dentro le scuole. In quella dove ho insegnato fino a giugno continua a piovere. Sono andata qualche giorno fa in visita ai colleghi e c’erano i cartoni per terra sulle scale. Questo, come gli anni precedenti e a nulla è servito telefonare ripetutamente in Comune. Nessuno si è mai preso la briga di venire a vedere. Lo stesso per il riscaldamento: caloriferi non funzionanti, che perdono acqua. Qualche volta sono venuti gli operai del Comune e poi basta. Lo stesso per le imposte rotte, che non si possono chiudere, e d’inverno fa freddo nei corridoi. Sto parlando di un istituto di Genova, della Secondaria di primo grado De Toni, Via Vittorino Era, a Sturla, zona medio-Alta, e non di una scuola del profondo Sud, come molti potrebbero supporre. Ma questo, purtroppo, non è un episodio isolato. Molti edifici della scuola pubblica del capoluogo ligure, soprattutto nel Ponente genovese, come a Begato, dove c’erano le bacinelle per raccogliere l’acqua piovana, sono abbandonati al trascorrere del tempo e senza manutenzione; onde prevenire danni ulteriori, che in passato si sono verificati, ad alunni e personale scolastico, insegnanti e non. Questa mattina, mentre ero alla Coop di Corso Europa, parlavo con una signora, sfiduciata ma molto arrabbiata, la quale denunciava che all’asilo della nipotina, a Dinegro, non esce acqua potabile dai rubinetti e i bambini sono costretti a portarsi le bottiglie da casa. Infatti, la signora in questione spingeva il carrello pieno di cestelli di acqua minerale, acquistati per dare una mano all’asilo della bimba. Ma siamo a Genova o nell’Africa coloniale e sfruttata?
L’edilizia scolastica, cari amministratori di “Genova meravigliosa”, è compito vostro. Cosa ne fate del denaro pubblico?
Maria Foti
POLITICA E ISTITUZIONI
Lo stato dell’arte delle regole e delle pratiche pubbliche
Ludopatia: la Liguria è in testa
Da anni Controinformazione e il sottoscritto cercano di combattere una battaglia abbastanza impari: quella contro il gioco d’azzardo. Sia l’illegale che quello cosiddetto legale. Cosiddetto perché se la legge civile lo consente, almeno quella etica dovrebbe impedirlo. Ma non solo: perché la ludopatia, che colpisce oggi quasi il 3% della popolazione italiana è un costo per il servizio sanitario, e quindi il problema non è solo etico ma anche sociale ed economico. La Liguria, terra di sparagnini, dovrebbe rappresentare un’isola non dico felice, ma almeno cauta sul piano delle scommesse, delle macchinette mangiasoldi (il banco vince sempre), dei gratta e perdi, e via dicendo: insomma del mondo che ritiene il deretano la via d’uscita ai problemi. Invece la nostra regione ha il triste primato di essere la peggiore d’Italia in proporzione al numero di abitanti. La Campania ha sei milioni di abitanti e spende dieci miliardi, noi ne abbiamo uno e mezzo e ne spendiamo ben tre. L’ultimo dato è del 2022, in leggera crescita rispetto all’anno precedente e quasi raddoppiato rispetto al 2020. Quali sono le cause e che cosa si può fare per arginare il problema, quanto meno a livello locale? Per questo secondo aspetto basterebbe applicare una legge regionale (si può fare) che impone una distanza minima di almeno 300 metri (per macchinette e affini) dai luoghi sensibili (scuole, banche, ospedali). Aiutando magari a livello fiscale tabaccherie e bar che si vedrebbero depauperare di una notevole quantità di denaro. D’altra parte anche nel 1958 quando furono chiusi i bordelli qualcuno ci rimise. Ma oggi la quantità maggiore di scommesse viene fatta on line: e qui la Regione non c’entra. Sulle cause s’interrogano milioni per attività inutili e dispendiose (chi vuol leggere Ocean Race, Genova Jeans, Skymetro lo può fare) invece di occuparsi delle fasce più deboli della popolazione (perché sono queste le più soggette, le vittime preferite del gioco d’azzardo, finendo spesso in preda all’usura e/o alla disperazione), dove si considera la cultura un plus (chi vuol leggere dei 300.000 ultimi euro negati al Festival della Scienza, lo faccia) invece che il terreno su cui costruire una società più sana. D’altra parte il potere sa che più siamo ignoranti più siamo manipolabili: e il gioco (d’azzardo) è fatto.
Carlo A. Martigli
SPAZIO E PORTI
Traffici e infrastrutture nella prima industria ligure
Gianluigi Aponte sbeffeggia Signorini (e pure il duo Bucci & Toti)
«Se avessimo la nuova diga non andrebbe così».
Fosse ancora a Palazzo San Giorgio l’indimenticato presidente dell’Autorità di sistema portuale di Genova e Savona probabilmente reagirebbe in questo modo ai dati negativi del traffico nel terzo quadrimestre 2023. Paolo Emilio Signorini l’aveva detto: «se non facciamo la nuova diga, MSC non può fare arrivare le mega-navi da 24mila teus e il porto di Sampierdarena morirà (sic!)». È stato così convincente che insieme ai sodali sindaco Bucci e presidente regionale Toti ottenne alcuni miliardi pubblici da spendere per progetti affidati ai padroni del cemento per “vie brevi”.
Ma Gianluigi Aponte, padrone di MSC, deve essere un tipo beffardo. Come disse alla posa della prima pietra della diga: «Genova per MSC è un porto come tanti». Così succede che nel nuovo terminal Bettolo, concesso dopo 20 anni di cantiere e 300 milioni pubblici spesi, MSC in tre anni di utilizzo della metà operativa dei 180.000 mq. di superficie di banchina, con una capacità a regime di 550.000 teu/annui, ha movimentato solo 150mila teu nel 2022, e adesso si prevede il 35% in meno (100mila). Poi, quasi per scherno, il boss ha spedito le sue navi da 24mila teu al terminal di Genova Prà, dimostrando che le mega-navi possono arrivarci già da anni (oops, Signorini, Bucci e Toti non lo avevano mai dichiarato, né in pubblico, né in privato). E così, grazie alla beffa Aponte, non solo si è appurato che Sampierdarena non starebbe “morendo” solo perché non si fa la diga, ma anche che Prà non gode di buona salute. Infatti, perde traffici anche PSA, che pure avendo una capacità di 2milioni si prevede scenderà a 1,4 milioni teu; cedendo i carichi soprattutto al nuovo terminal di Maersk&Cosco a Vado Ligure. Due “grandi player” a cui il porto di Genova ha chiuso la porta in faccia e che perciò sono migrati a Ponente. Anche lì le mega-navi possono già arrivare (oops, anche su questo Signorini, Bucci e Toti hanno taciuto) ma sinora non se ne è vista una. Per fortuna a Vado i container crescono lo stesso di anno in anno e a fine 2023 si arriverà a 300mila teu. Seppure ancora lontani dai 900mila di capacità per un terminal costato 450 milioni, di cui quasi 300 pubblici e il resto di Maersk (che almeno ci ha messo un po’ del suo). Comunque, sommando Genova e Savona, questo sarà il primo anno (Covid a parte) in cui il totale dei container movimentati risulterà inferiore all’anno precedente: i progressi di Savona non riescono più a compensare il declino di Genova.
Riccardo Degl’Innocenti
Se Signorini fosse ancora a Palazzo San Giorgio
Infine, per ritornare all’attualità delle scelte strategiche di Signorini e soci, i traffici chimici di Superba e Carmagnani a Porto Petroli scenderanno a fine 2023 a solo 200mila tonnellate. Signorini direbbe (quale ventriloquo di Bucci) che è colpa del mancato trasferimento a Ponte Somalia. Lo direbbe impudentemente perché – invece – l’unico traffico merci che aumenta nel porto di Genova in maniera significativa è quello ro-ro; e che in particolare a Ponte Somalia il Terminal San Giorgio (che Bucci vuole sostituire con i depositi chimici) nel 2023 toccherà il record di 5milioni di tonnellate. Pari a più del 15% del totale complessivo delle merci varie nel porto di Genova. Tanta merce e tanto lavoro, per fortuna. E nessun pericolo per l’ambiente e la sicurezza dei lavoratori portuali. Come dei cittadini di Sampierdarena.
Non è mai troppo tardi per tornare alla ragione. Sicché di fronte alla crisi, ormai strutturale di lungo periodo dell’economia nazionale, principale cliente dei porti, e in un quadro globale (geopolitico, climatico, energetico) che non promette un mero esito congiunturale ma una profonda discontinuità degli assi e dei flussi del commercio e del trasporto internazionale, si riprenda urgentemente in mano il progetto “strategico” della nuova diga. Se ne rivedano i fondamentali tecnici, messi gravemente in discussione dall’autorevolezza di istituzioni di ricerca geomarina ed esperti internazionali di ingegneria idraulica. Si lavori, in stretta relazione con le parti economiche e sociali e le rappresentanze civiche, a un nuovo progetto che razionalizzi in primo luogo l’attuale assetto all’interno dei confini portuali e nei rapporti con il territorio. In secondo luogo, disegni quel nuovo modello di porto sostenibile sotto ogni profilo (economico, sociale, ambientale, etico) atteso dalla città. Ciò significa soddisfare prioritariamente i bisogni e la qualità di vita e lavoro della popolazione a cui il porto appartiene storicamente e geograficamente. Mentre solo strumentalmente dipende dagli interessi economici degli operatori marittimi, delle merci trasportate e dei mercati serviti. All’opposto di quello che è stato in questi anni recenti il governo portuale, di cui gli attuali risultati di traffico, principali indicatori della salute e delle prospettive di uno scalo marittimo, insieme alle precarie prospettive occupazionali e reddituali, oltre che al disagio e all’insoddisfazione dei cittadini, costituiscono una sonora bocciatura.
Riccardo Degl’Innocenti
SALUTE E SANITÀ
La prima tutela in una regione che invecchia
La femminilizzazione incompiuta nella sanità ligure
Quale ruolo della donna in sanità, oggi? Ad analizzare i dati, la sanità è femmina: per la Ragioneria dello Stato nel 2021 su un totale di 670.566 occupati nel Servizio Sanitario Nazionale, 460.858 sono donne: il 68,7%. Una presenza femminile cresciuta negli anni, come in generale l’occupazione in Italia; che però resta sempre molto al disotto di quella maschile ed è la più bassa tra i Paesi UE. In particolare cresce l’occupazione femminile nei ruoli sanitari dirigenziali del Ssn, mentre la percentuale di infermiere è da sempre elevata, pari al 77 % circa. Le mediche nel 2010 erano il 38,4 % e nel 2021 il 53,5%. In Liguria l’occupazione delle donne nel ruolo sanitario è il 74%. Ma questo avanzamento della posizione delle donne non corrisponde a una parità di trattamento economico. L’Organizzazione Nazionale del Lavoro (ILO) e quella Mondiale della Sanità (OMS) hanno svolto un’indagine recente sulla disparità di genere in 54 Paesi, il gender gap, evidenziando come in Italia questa sia tra le più elevate. Nonostante la femminizzazione in atto, le donne continuano ad occupare ruoli considerati secondari. Tra le mediche, prevalgono specialità con minori responsabilità. E il divario retributivo nelle posizioni apicali arriva nel nostro paese anche al 60 – 70%! Ossia, due medici primari su tre sono uomini. Le ragioni sono facilmente individuabili per le donne che decidono di affrontare la maternità: mancanza di strutture di supporto alla genitorialità, percorsi di formazione molto lunghi e necessità di continui aggiornamenti professionali penalizzano maggiormente le giovani madri. Servirebbe un adeguamento dell’organizzazione del lavoro, che continua ad essere plasmato sui medici uomini. Nella prospettiva di una sanità futura, come evidenziato da un sondaggio tra le mediche del sindacato ANAAO, emergono temi legati alla conciliazione dei tempi di lavoro con la vita privata e la famiglia, alla maggiore equità e possibilità di carriera. Ma le mediche vanno ben oltre. Immaginano un diverso mondo delle cure al femminile in cui alle modifiche organizzative corrispondano obiettivi professionali differenti, indirizzati al benessere più che alla salute in senso stretto e alla consonanza tra lavoro e felicità. Obiettivi messi in forse da una privatizzazione incalzante della sanità che – per rispondere ai nostri governatori locali – ci fa molta paura in quanto modulata su logiche di profitto che rendono problematico il diritto alla salute delle persone.
Nuccia Canevarollo
FATTI E MISFATTI
Affarismi (o peggio) e miserie del potere, locale e non
Liguria, la de-industrializzazione prosegue indisturbata
Unioncamere segnala un calo di imprese nel primo semestre 2023, rispetto all’anno precedente: 2500 sul totale di 159.078 imprese. Mentre Toti sventola come successo personale l’aumento percentuale degli occupati. Dimenticando il rimbalzo di assunzioni post Covid; il dato che, a popolazione calante, la semplice stabilità occupazionale si traduce in aumento percentuale fasullo; infine la qualità dell’occupazione, naturalmente ignorata. Analoga rimozione per la tipologia d’impresa. Qui il settore in espansione è il turismo; sinonimo d’occupazione stagionale, saltuaria, lavoro a chiamata spesso dequalificato. Anni fa alcuni geni, inventarono la bellezza di 12 distretti industriali “fantasma” in Liguria: un disastro. Alessandro Cavo, presidente di Confcommercio, e Luca Mastripieri di CISL Liguria concordano nell’indicare come causa prima di tale calo lo stato dei collegamenti. Come se bastasse un treno per creare sviluppo. Comunque in una regione che ha una percentuale di infrastrutture autostradali e ferroviarie tra le più alte d’Italia.
Strano che non vengano presi in considerazione altri fattori. Come l’invecchiamento della popolazione residente. Altro fattore frenante è l’orografia del territorio: rari spazi insediativi a prezzi molto più elevati delle regioni limitrofe e resi ancor più costosi dal fatto di necessitare spesso messe in sicurezza. E le aree industriali dismesse? Chi visitasse Campi, la Fiumara, ma anche la ex Mammut a Savona o la raffineria IIP alla Spezia troverebbe solo supermercati e multisale. E la fertilizzazione tecnologica del territorio? Come non chiamare in causa Università, IIT e altri soggetti dedicati se non c’è stato sviluppo di piccole imprese hi-tech. In verità solo le vecchie partecipazioni statali, pur coi loro difetti, praticavano l’incontro industria- università-ricerca. Realtà strategiche che gli ideologi delle privatizzazioni salvifiche hanno distrutto per pochi spiccioli. Si pensi all’Italimpianti e al suo smembramento.
Dunque nessuna politica industriale. Con la mancata gestione delle aree disponibili, mentre il soggetto pubblico assiste passivamente alla loro destinazione a insediamenti commerciali; opera di investitori ben più forti finanziariamente.
Eppure gli esempi positivi sono a portata di mano: nella vicina Sophia Antipolis intelligenti politiche industriali hanno creato un polo di ricerca dove, in un contesto accogliente, lavorano ben 30.000 addetti estremamente qualificati. Noi ci accontentiamo di un treno.
Nicola Caprioni
Lo zelante pantofolaio di MSC
Luigi Merlo è il Direttore Rapporti Istituzionali per l’Italia del Gruppo MSC dal 2017, dopo che nel 2015 si era dimesso da Presidente dell’Autorità portuale di Genova in polemica con Rixi, assessore ai porti nella giunta Toti. Poi ha collaborato con il Ministro Del Rio alla riforma portuale del 2016. Per cui pareva destinato alla carriera politica nel Centro-Sinistra. Invece ecco l’assunzione in MSC. Con una controindicazione: la legge vieta a un ex dipendente pubblico, per tre anni dal fine rapporto, di svolgere attività professionale a favore di un soggetto privato già destinatario dei poteri autoritativi che egli aveva esercitato per conto dell’amministrazione. Una circostanza che gli ordinamenti di molti Paesi indicano con il francese “pantouflage” (“calzare le pantofole”, ovvero sistemarsi al caldo). Che il caso di Merlo ricadesse nel divieto lo dimostrano le successive pronunce sfavorevoli a MSC, salvo che alla fine l’Autorità Nazionale Anti Corruzione ritenne di archiviare il tutto. Senza entrare nel merito giuridico, ci limitiamo a ricordare i motivi dell’assunzione di Merlo che Ship2Shore segnalava all’epoca: «MSC ha avuto modo di apprezzare il lavoro di Merlo durante il suo mandato al vertice di palazzo San Giorgio durante il quale il gruppo svizzero è andato progressivamente radicandosi nel capoluogo ligure: l’acquisizione di Stazioni Marittime, il controllo di Grandi Navi Veloci, la costruzione delle torri MSC a San Benigno, fino alla concessione sul terminal container di Calata Bettolo». Ora colpisce la frase con cui Merlo torna a farsi vivo nel recente comunicato di Federlogistica, che presiede in quota MSC, a proposito degli effetti climatici devastanti sui porti e le coste italiane; registrati anche in questi giorni: la necessità di dirottare risorse del PNRR su interventi di rafforzamento delle opere a mare. Aggiungendo che «l’unica opera prevista è la nuova diga di Genova della quale anche i più scettici, dopo la mareggiata di oggi, dovrebbero avere capito l’importanza».
Ma, scettici o meno, la nuova diga non avrà nessuna importanza per la difesa della costa rispetto alla diga che già oggi protegge la città prospiciente. Perché questa dichiarazione bislacca? Il fatto è che l’unico utilizzatore iscritto nel progetto dell’opera miliardaria è il terminal MSC di Calata Bettolo. Dunque, lo zelante Merlo, “piedi al caldo”, sostiene gli interessi del nuovo padrone, anche al prezzo di clamorose corbellerie.
Riccardo Degl’Innocenti
UNO SGUARDO DA LEVANTE
Cosa bolle in pentola nell’Est ligure? Testimonianze
Silenzi e misteri sul futuro dell’ex centrale Enel di La Spezia
Per anni gli spezzini hanno subìto i fumi della centrale ENEL “Morandi” costruita a ridosso della città. Innumerevoli le proteste, mentre difettano notizie certe su morti e malati di malattie respiratorie per le emissioni dell’impianto.
Finalmente l’attività è cessata nel 2021, quando anche l’ultimo gruppo è stato spento. Si è così aperto un dibattito sul futuro di un’area pregiata di 70 ettari pianeggianti (una vera rarità in Liguria), vicini al porto e all’autostrada.
Per qualche tempo si è temuto persino che, dato l’atteggiamento ambiguo al riguardo di Comune e Regione, si potesse concedere a ENEL di continuare la produzione energetica con uno stabilimento a turbogas. Progetto fortunatamente non realizzato.
In seguito era stata lanciata la proposta di utilizzare l’area per la produzione di idrogeno verde: il piano “La Spezia Green Hydrogen”, messo a punto da Enel, contemplava la costruzione e la gestione di un impianto di elettrolisi da 2 megawatt per la produzione di idrogeno verde, destinato ad alcune utenze finali dell’industria, con l’obiettivo di accelerare i loro rispettivi percorsi di de-carbonizzazione.
Intanto La Spezia sta per lasciarsi sfuggire un progetto da 14 milioni di euro di un nuovo sito produttivo sempre per l’idrogeno verde nell’area dell’ex centrale Enel di Vallegrande. E così si perde ancora una volta il treno dei finanziamenti del Pnrr. Ancora una volta il sindaco Peracchini e il “governatore” Toti, tacciono. Non si assumono responsabilità.
L’ultima novità è l’invenzione di un “patto di segretezza” tra comune ed ENEL sul futuro dell’area. Al tradizionale e impacciato immobilismo di Regione e Comune si aggiunge ora il segreto: i cittadini non devono sapere cosa si decide per il futuro di uno spazio cittadino strategico. Nel frattempo il comune di destra ha varato una variante del PUC, che consente insediamenti artigianali e industriali proprio in quell’area, mentre prima ne era prevista la destinazione per produzioni energetiche da fonti rinnovabili e pulite.
Scelta che pareva favorire l’ENEL, per riceverne importanti investimenti tecnologici a risarcimento dei danni ambientali che per decenni ha causato alla città.
Dunque, la destra al governo locale e regionale non solo non sa che fare, manca di un’idea sul futuro dell’area, né riesce a incalzare l’ENEL e costringerla a rispettare gli impegni assunti. Visto che difetta in progettualità, cosa combina? Silenzia qualunque notizia al riguardo. Un bell’esempio di trasparenza democratica!
Nicola Caprioni
UNO SGUARDO DA PONENTE
Cosa bolle in pentola nell’Ovest ligure? Testimonianze
Alcuni tra i principali esponenti dell’associazionismo civile del Ponente (Attac Imperia, Casa Balestra, Coordinamento imperiese Acqua Pubblica, Collettivo Italia-Centro America, Fridays For Future Ventimiglia, Italia Nostra Ponente Ligure, Ci Siamo in difesa dei beni comuni = https://cisiamo9.blogspot.com/) ci inviano questa importante testimonianza come memento per evitare nuove catastrofi.
Ricordare per imparare. L’11 novembre si è parlato di Vajont a Badalucco
Ricordare la tragedia del Vajont, a sessant’anni di distanza, non è solo un esercizio di memoria nazionale, sebbene doveroso. Quella catastrofe, dove persero la vita 1910 persone, deve restare il monito di un disastro evitabile. Solo così si può rendere omaggio a quelle vittime e impedire che diventi una data sbiadita nel calendario delle tragedie del nostro Paese. Quel “genocidio dei poveri”, come venne definito nell’arringa da Sandro Canestrini, avvocato di parte civile nel processo del Vajont, va visto in una dimensione di responsabilità molto più ampio che coinvolge l’idea stessa di progresso, come se lo sfruttamento del territorio, l’estrazione delle risorse non avessero un impatto negativo sull’ambiente naturale e sulla vita delle persone. La cosiddetta “tragedia del Vajont” non fu un evento causato dalla sventura, ma “un omicidio colposo plurimo con l’aggravante della prevedibilità”, come venne sentenziato dalla Cassazione nel 1971 condannando lo Stato italiano, Enel e Montedison: Quella diga non doveva essere costruita.
L’11 novembre si sono incontrate nuovamente le comunità di Longarone e Badalucco, nel paese della Valle Argentina, per celebrare la “battaglia di San Martino” e ricordare l’anniversario storico della lotta contro la costruzione della diga di Glori.
Proprio mentre il progetto della diga e degli invasi nel torrente Argentina è tornato d’attualità, sarà un’occasione di condivisione e solidarietà per una vicenda fortemente identitaria, che ha segnato la comunità badalucchese, ma anche per ribadire una necessaria inversione di rotta.
L’urgenza di intervenire è dettata dalla gravità della crisi climatica, i cui effetti aggravati dal prevalere di una visione economicista nella gestione del territorio, stanno causando danni ambientali irreversibili. Ecco perché siccità e alluvioni sono i due aspetti della stessa medaglia. Per ridurre gli effetti di eventi eccezionali come quelli avvenuti di recente in Toscana, non servono più opere, ma un’altra gestione di fiumi e territorio. Così come, con l’aumento delle temperature e degli sconvolgimenti climatici, costruire nuove dighe non è una risposta alla scarsità d’acqua.
Non serve essere geologi o climatologi per constatare la fragilità di questo lembo di Liguria.
Lo stanno approfondendo diverse associazioni locali che insieme hanno promosso l’iniziativa “L’acqua è vita. Come contrastare la siccità?” per un confronto con cittadine e cittadini e molte realtà territoriali, non solo della Valle Argentina.
Daniela Cassini e Mauro Giampaoli
PASSEGGIATE D’ARTE
Le bellezze dimenticate da riscoprire
La Chiesa delle Vigne, dal Medioevo al Neoclassico
Secondo Domenico Cambiaso la Chiesa delle Vigne risalirebbe al 560 d.C., come cappelletta dedicata alla Madonna. Ma fu nel 980 che Oberto Visconti e Guido da Carmandino concessero l’edificazione fuori le mura “in vineis” di una chiesa dedicata a Maria. Nacque così la parrocchia di S. Maria delle Vigne, la più antica sede del culto mariano in città, originariamente costruita in forme gotiche e più volte rimaneggiata a partire dal XIII secolo, a cui risale l’originario tetto a capriate sopra la volta secentesca della navata centrale. Le prime modifiche al complesso romanico sono del 1585, quando, su iniziativa della famiglia Grillo, venne deciso l’ampliamento della zona absidale fino al cimitero retrostante. La trasformazione barocca dopo il 1640 è dell’architetto ticinese Daniele Casella. L’attuale facciata neoclassica fu realizzata nel 1841 da Ippolito Cremona.
“Le Vigne” cela numerose sorprese, come lo splendido campanile in stile romanico gotico a base quadrata con una guglia ottagonale, eretto alla metà del XII secolo e perfettamente conservato. Quindi, percorrendo il Vico del Campanile si incontrano archetti, probabili resti cimiteriali paleocristiani; poco più avanti, sotto l’arco del campanile ecco la meraviglia di un sarcofago del II sec. d.C. che rappresenta la morte di Fedra. Nel 1304 venne utilizzato per conservare le spoglie di Anselmo d’Incisa, astronomo, alchimista e medico personale di Papa Bonifacio VIII e Filippo il Bello. All’interno svanisce l’effetto severo della facciata e conquista l’ampiezza e la luminosità dell’enorme spazio colmo di dipinti, statue e affreschi. Ma è la luce che domina: entra prepotentemente dalla cupola centrale per riversarsi nella basilica, accarezzando le superfici e i colori che incontra. La volta del presbiterio è di Lazzaro Tavarone che dipinge la Gloria di Maria e poi lungo le navate si ammira una profusione di opere che vanno da uno strepitoso Bernardo Castello (“I diecimila Crocifissi e Santi”, tra i quali Sant’Eligio Patrono degli orafi, difatti Via degli Orefici è attigua), a Domenico Piola, a Domenico Parodi, a Gregorio De Ferrari a Bartolomeo Guidobono, in una galleria della miglior pittura genovese tra ‘6 e ‘700, arricchita da sculture del Maragliano, dei fratelli Orsolino e di Filippo Parodi. Infine, a chi ama la musica, non può sfuggire il sepolcro di Alessandro Stradella, pugnalato a morte nel 1682. Si dice dai sicari di un nobile veneziano al quale il musicista pare insidiasse la consorte.
Orietta Sammarruco
GENOVA MADRE MATRIGNA
Al centro di una regione centrifuga
Motomania, quando la parsimonia genovese dimentica se stessa
I genovesi sono persone parche e virtuose, si vergognano della ricchezza, che accuratamente nascondono e poco incide nel loro stile di vita; non hanno uffici rappresentativi ma “scagni”; difficilmente abbandonano la Panda per comprarsi una Ferrari e si inerpicano a piedi, senza rallentare, su per creuse ripidissime, per risparmiare il biglietto dell’ascensore. Virtuosi e noiosi: a parità di ricchezza un milanese ti si presenta come uno sceicco e ti invita sul suo yacht. Spartani e senza vizi. O quasi, perché il concentrato di tante rinunce trova la sua hybris nel vizio irrinunciabile: la moto. Partiamo dai numeri. Genova ha una popolazione di 557.000 abitanti, di cui 280.000 fra bambini, anziani e immigrati. Gli abilitati a guidare la moto sono quindi, a braccia, circa 277.000.
Le moto immatricolate sono 200.000, quasi una a testa, un record europeo. La città è sconciata dalla presenza invasiva delle due ruote su marciapiedi, aiuole, intere piazze storiche, come metastasi di un cancro mentale difficile da curare: il rifiuto categorico di usare i mezzi pubblici. Con ciò si palesa un altro peculiare aspetto della popolazione genovese: l’ipocrisia. Amici cari motociclisti ribattono, sentendosi eroi: “pensa un po’ se usassimo tutti la macchina”. Che è giustificazione imbecille quanto la mia risposta: “pensa un po’ se tutti gli automobilisti usassero l’elicottero”. C’è un totale rifiuto di capire che la moto non è alternativa alla macchina, ma al trasporto pubblico che, a parole, si vuole incentivare. La cosa veramente scandalosa è però il fatto che le moto non paghino una lira per i posteggi; regalando loro intere piazze, come piazza Dante, Piccapietra, Iacopo da Varagine, eliminando pure i posti per disabili. Per disincentivare il trasporto privato c’è solo un mezzo: renderlo più difficoltoso del trasporto pubblico. A Milano nessuno va a lavorare in macchina e pochissimi in moto, perché praticamente non esistono posteggi. Tutti in metropolitana. E qui parte la seconda lagnanza: il trasporto pubblico non funziona. Allora vediamo qualche cifra: se le moto pagassero il posteggio, ci sarebbe un introito medio nelle casse del Comune di dieci milioni di euro all’anno, con cui anche un cretino saprebbe organizzare in tempi brevi il trasporto pubblico più efficiente del pianeta. Dunque: posteggi moto a pagamento fino ad efficientamento del trasporto pubblico e seguente cancellazione del 90% dei parcheggi. Al loro posto alberi, arredo urbano di qualità e silenzio.
Marina Montolivo Poletti
La nostra Nuccia Canevarollo, nello scorso numero di questo magazine, segnalava la perdita di cultura del lavoro nelle giovani generazioni liguri. Ora con Getto Viarengo iniziamo ad andare a ricostruire questa preziosa tradizione
Alle origini della cultura ligure del lavoro: il caso Chiavari
Prima che a Chiavari giungesse la Rivoluzione Industriale, le statistiche parlano di un’area a scarsa viabilità, attività agricole tradizionali e conformazione statica. La mutazione si ebbe con la ferrovia, avvio di un’industrializzazione altrove già in atto da decenni. Le Regie Patenti del luglio 1844 autorizzavano la linea Genova-Torino; successivamente si realizzò quella costiera Ventimiglia-La Spezia. Il primo treno raggiunse Chiavari il 23 novembre del 1868, il 25 aprile 1870 Sestri Levante. La Spezia fu raggiunta il 24 ottobre 1874. Anni di grandi cambiamenti nel lavoro, con crescita di quello industriale mentre sopravvivono attività tradizionali: nel circondario chiavarese si contava poco meno di 40mila agricoltori, l’industria tessile rilevava circa 10mila addetti. Ma la vera rivoluzione giungerà con gli investimenti nelle industrie navali, siderurgiche e nell’elettromeccanica del tessile. Elementi per ricostruire il cammino delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e le lotte per migliorie normative e salariali. Quando il Tigullio di Levante vide i primi opifici con folte maestranze, spesso impegnate in lavorazioni usuranti. Dapprima furono le Società di Mutuo Soccorso a tutelare il mondo del lavoro; successivamente, con la fondazione del Partito Socialista, una più diretta azione politica e sindacale con le Leghe. Il primo riferimento giornalistico alla Camera del Lavoro chiavarese risale al 2 giugno 1906. Avvio di un percorso riferito dalle pagine de “Il Risveglio” da cui possiamo individuare le tappe successive, fino all’inaugurazione della Camera Circondariale di Chiavari il 21 aprile 1907. Con il primo elaborato di programma. Il documento si concludeva annunciando la costituzione del sindacato: “strumento per migliorare la condizione operaia nel campo economico-politico” e la raccolta delle adesioni fissata a fine giugno. I primi iscritti sceglieranno i delegati dando vita alla “Commissione Centrale in Chiavari, che opererà al più presto dichiarando costituite le leghe”, sancendo l’indipendenza della Camera dai partiti. Ma “non trascurando la politica di Classe, la vera politica che devono compiere i lavoratori stretti nei loro sindacati di mestiere contro gli antagonistici interessi della borghesia”. Questi dati delineano come il lavoro mutò nel tempo, cambiando l’economia di un territorio omogeneo organizzato da secoli sulla centralità chiavarese. una storia che va riaffermata per comprenderne le future mutazioni.
G. V.
L’occupazione industriale a Ponente agli albori del ‘900
Con i primi passi della nuova realtà sindacale, basata su una diffusa rete di Camere del Lavoro, si rese necessario definire un quadro degli addetti nell’industria e delle diverse imprese nel Tigullio. Il primo censimento organico forniva un panorama piuttosto articolato: Cantiere Navale Riva Trigoso, fondato da Erasmo Piaggio nel 1899, circa 1.100 operai; la Ramifera di Casarza Ligure (TLM – Trafilerie Laminatoio Metalli), fondata nel 1885 da Gardella per lavorare materie prime delle miniere nel territorio, circa 1.200 occupati; la Fabbrica Nazionale Tubi, fondata a Sestri Levante 1906, nel 1911 Trafilerie Laminatoi Metalli e poi FIT – Ferrotubi, con circa 500 addetti; a Lavagna il Cotonificio Entella poi Olcese, in funzione dal 20 dicembre 1905, occupava circa 600 dipendenti, di cui 400 donne; Cantiere NICA (Navi Italiane Cemento Armato), circa 150 operai.
Getto Viarengo