Indice
- SPIFFERI
- C’È POSTA PER NOI
- ECO DALLA RETE
- ECO DELLA STAMPA
- GLI ARGOMENTI DEL GIORNO
- AMBIENTE
- POLITICA E ISTITUZIONI
- SPAZIO E PORTI
- SALUTE E SANITÀ
- FATTI E MISFATTI
- UNO SGUARDO DA LEVANTE
- UNO SGUARDO DA PONENTE
- PASSEGGIATE D’ARTE
- GENOVA MADRE MATRIGNA
SAPERE PER DECIDERE
CONTROINFORMAZIONE LIGURE
Consultabile anche sulla Pagina Facebook: https://www.facebook.com/profile.php?id=100092285688750
e sul Sito Web “Controinformazione ligure – sapere per decidere”: https://www.controinformazioneligure.it
Numero 16, 15 febbraio 2024
SPIFFERI
Toti beato tra le vallette tacco 12 Marylin Fusco e Lella Paita
La furia delle acque e la furia politicante pro business
In questo numero del magazine si parla di torrenti liguri sempre a rischio alluvione, con testimonianze da tutte le nostre province. E – in sostanza – da Levante a Ponente la denuncia è sempre la stessa: lo stop ai vincoli edilizi nelle aree inondabili. Indubbiamente ci sono enormi responsabilità della giunta regionale in carica. Con il lassismo peloso (a perenne rischio catastrofi) per cui nel maggio scorso si autorizzava la costruzione di nuovi edifici o l’ampliamento di quelli esistenti in zone a rischio alluvione. Ma già nella giunta precedente, dove impazzavano le erinni protettrici dell’edilizia a tappeto Marylin Fusco e Lella Paita, si liberalizzava l’uso degli interrati e si voleva ridurre le fasce dei Piani di Bacino dei torrenti assassini. Per pura devozione all’affarismo.
Good news dalla Savona di domani
Buone notizie da Savona, in totale controtendenza rispetto alla quotidianità ligure. Per cui, se le altre amministrazioni eliminano le panchine per evitare che vi si possa riposare un extracomunitario o imperversano assessori-bulli che promettono calci a un dropout, magari un barbone che prima della caduta era un rispettato professionista, se trovato a rovistare nei cassonetti alla ricerca di cibo, nella città del Priamar l’avidità possessiva ancora non ha cancellato civismo e solidarietà. Il 5 febbraio è stata diffusa la notizia che il sindaco Marco Russo ha conferito la cittadinanza per ius soli a 69 nati/e a Savona da genitori stranieri. E ha commentato: “dietro ognuno di quei 69 nomi c’è un bambino o una bambina che arricchiscono la nostra comunità e saranno i savonesi di domani”.
Lotta alla povertà o contro i poveri? In Liguria
Ultime sull’inflazione, con i dati liguri del 2023. La fonte non è il Partito Comunista della Corea del Nord, ma il Centro di Formazione e Ricerca sui consumi, che a sua volta si basa su dati Istat. Se l’inflazione generale in Italia è stata del 5,7% in Liguria era del 6,8%. Complimenti. Ma il dato su abitazioni, acqua ed energia, su cui l’amministrazione potrebbe intervenire per calmierare i costi, è mostruoso: Italia al 3,9% e Liguria all’8,6% con il picco di Genova al 9,1%. Forse c’è chi ha confuso il senso della lotta contro la povertà: pensa che si debba proprio combatterla a favore della ricchezza. E ci sta riuscendo, considerando che su una popolazione di poco più di un milione e mezzo di abitanti, quelli a rischio di povertà sono circa un quarto, oltre trecento sessanta mila.
C’È POSTA PER NOI
La nostra “sentinella dai quartieri” Maria Foti ci segnala:
A proposito dei mezzi pubblici
Da oggi il costo del biglietto AMT sale a due euro. Stesso servizio da schifo, un autobus scassato in corso Europa e più auto in giro. È chiaro che la gente preferisce pagare il park in centro. Costa meno. Quindi, più spese, più traffico e più inquinamento. Modello Genova meravigliosa? Poi il fatto di aver sdoppiato il biglietto in bus o treno. Era comodissima la doppia possibilità “tutto in uno”. Se uno prendeva il bus e per qualche ragione conveniva prendere il treno, si continuava a usare lo stesso titolo.
Anziché fare un carnet da 20 euro e l’altro da 22, potevano accordarsi per una via di mezzo. Come complicare la vita…
Maria Foti
Invito a due appuntamenti da non perdere
Il nostro affezionato lettore Matteo Viviano, coordinatore ligure del comitato “Scuola e Costituzione”, ci ribadisce un problema che fuoriesce abbondantemente dal perimetro territoriale di riferimento redazionale del nostro web magazine. Ma che ospitiamo con piacere in quanto cittadini molto preoccupati per le sorti del nostro Paese.
La legalità come grande questione nazionale
Qualche giorno fa, l’ex magistrato e attuale guardasigilli ha detto che in Italia la corruzione è percepita più che reale, ribadendo che la vera risoluzione dei problemi della giustizia sta nella divisione delle carriere della nostra magistratura. Appena il caso di ricordare che la realizzazione di questo ineffabile progetto sottoporrà l’azione del PM al volere dell’esecutivo, con gravi conseguenze sull’indipendenza della magistratura. Se a tutto questo si aggiunge la cancellazione del reato di abuso di potere in atti d’ufficio, la tutt’altro che percepita corruzione finirà per essere definitivamente eretta a sistema di governo, facendo fare al nostro Bel Paese poderosi balzi in avanti nella becera classifica delle nazioni più corrotte al mondo. Fraterni saluti.
Matteo Viviano
Riceviamo la foto di sinistra da Riccardo Degl’Innocenti:
La logistica di corte
Gianluigi Aponte ricevuto a Palazzo San Giorgio dalle autorità locali: il monarca omaggiato dai fedeli vassalli.
ECO DALLA RETE
Il 24 gennaio scorso Andrea Moizo ha postato su Facebook una lunga ricostruzione dell’ennesima vicenda kafkiana – l’iter del progetto per il tunnel sub-portuale – che ci apparecchia la furia cementificatrice dell’Amministrazione genovese; sempre di più cultrice della post-Verità. Ne riportiamo un ampio stralcio
Che PAURA! fari spenti nei meandri dei tunnel sub-portuale (e non solo)
Pubblicati i documenti del via libera, reso possibile dalla rinuncia di Soprintendenza (e in parte di Arpal) alle proprie prescrizioni, il 19 dicembre in pompa magna Regione Liguria annunciava il rilascio del Paur (Provvedimento autorizzativo unico regionale) al progetto di Aspi (Autostrade per l’Italia) per il tunnel sub-portuale di Genova. Annuncio privo della relativa documentazione, pubblicata tre giorni oltre la scadenza nel labirintico sito della Regione. Solo un assaggio di ciò che i documenti rivelano sulle procedure approvative di progetti impattanti e costosi come il tunnel.
Il provvedimento arriva a valle di una conferenza dei servizi durata tre mesi. Gli ostacoli più impervi sono stati: per Arpal era inaccettabile che Aspi prevedesse di conferire circa 0,5 milioni di mc di terre da scavo nei cassoni della Fase B della diga, perché tale Fase esiste solo sulla carta; la Soprintendenza lamentava non fosse rispettato quanto da essa prescritto per autorizzare il riempimento di Calata Concenter.
Arpal è stata accontentata: Aspi ha rinunciato al costoso conferimento in discarica e la Regione comunica che “Adsp (Autorità portuale) ha inviato informalmente l’autorizzazione della fase B del progetto Nuova Diga Foranea”. Peggio fa la Soprintendenza che, sebbene manchi l’ottemperanza a quanto da essa richiesto, dà comunque parere positivo. Altro aspetto surreale della procedura: il problema che il Piano regolatore portuale prevede il riempimento di Bengasi non quello di Giaccone.
Detto che Aspi ipotizza la modifica del piano scavi con lo switch Bengasi/Giaccone solo laddove l’interramento di quest’ultima dovesse essere approvato, il PAUR riporta in più passaggi un falso: “l’Autorità di Sistema Portuale ha in corso la variante del Piano Regolatore Portuale”. In effetti, in quella direzione la variante non è mai stata avviata, così come il nuovo Prp (che potrebbe introiettare lo scambio Bengasi/Giaccone) è ad oggi meno che in embrione.
L’impressione è che la procedura autorizzativa fosse decisa in partenza e che i tre mesi di conferenza dei servizi, più che a ottimizzare i numerosi e controversi impatti pubblici dell’opera, siano serviti a piccole limature – come parrebbe dimostrare la rinuncia finale (da parte in particolare della Soprintendenza, ma anche di Arpal) a condizioni fino a prima di Natale poste come imprescindibili – e a rilanci al rialzo (a spese di Aspi).
Andrea Moizo
ECO DELLA STAMPA
Annamaria Coluccia prosegue nel suo impegno omerico sul Secolo XIX di narrare l’Iliade del Bucci “dai molti pensieri”, che con il suo Cavallo della Valbisagno a forma di Skymetro vuole espugnare il quartiere. Ma – come ci è stato cantato sul Scolo XIX il 2 febbraio – entità superiori potrebbero punire la sua hubris costringendolo a un’Odissea.
Skymetro, i paletti della Regione: “rischio alluvioni, servono garanzie”.
«Non solo il Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Il cammino a ostacoli del Progetto Skymetro della Valbisagno inciampa anche nei rilievi mossi (e non per l prima volta) dagli uffici del settore Difesa del suolo della Regione. Che hanno giudicato insoddisfacenti le risposte ricevute dal Comune su tre aspetti importanti, relativi anche alla sicurezza idraulica. In particolare riguardano: la compatibilità del progetto con il PUC (Piano urbanistico comunale) e, quindi, la necessità o meno di una variante; eventuali interferenze dell’infrastruttura con opere di adeguamento idraulico da realizzare dopo lo scolmatore del Bisagno; la compatibilità o meno delle opere previste in alcune stazioni dello Skymetro con il Piano di bacino del Bisagno. Le carenze sono evidenziate in un documento, pubblicato nel sito Internet della Regione, nell’ambito della procedura di Valutazione dell’impatto ambientale, che è in corso sul progetto. La lettera, del 4 gennaio scorso, è stata inviata agli uffici competenti del Comune dalla direzione generale della Protezione civile e Difesa del suolo della Regione, nell’ambito della Conferenza di servizi che è stata aperta a Palazzo Tursi per vagliare il progetto di fattibilità tecnica ed economica dello Skymetro che, prolungando la metro con una struttura soprelevata, dovrebbe collegare la stazione Brignole a Molassana, nella lettera si ricorda che gli stessi uffici regionali avevano già chiesto al Comune integrazioni alla documentazione inviata riguardo a tre aspetti del progetto, ma “la documentazione pervenuta non soddisfa le richieste” e, quindi, lascia irrisolte le questioni poste. […] Intanto, sembra che venti poco propizi per lo Skymetro continuino a soffiare pure dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, il massimo organo tecnico del ministero delle Infrastrutture, che deve esprimere un parere sul progetto: parere obbligatorio, anche se non vincolante, che comunque sarebbe difficile ignorare. Secondo rumors insistenti anche l’ultima missione romana dell’assessore Campora e dei tecnici che stanno seguendo il progetto, avrebbe avuto un esito non positivo per l’amministrazione comunale. Gli esperti del Consiglio superiore avrebbero contestato ancora diversi aspetti puntuali e anche l’approccio complessivo, rinviando la formulazione del parere che – sempre secondo indiscrezioni – potrebbe arrivare a marzo».
Annamaria Coluccia
GLI ARGOMENTI DEL GIORNO
LA LINEA GENERALE
Una visione d’insieme sullo stato dell’arte regionale
Il nuovo inganno nucleare
Nuclear now, film di Oliver Stone messo in onda da La7, ha rilanciato il nucleare a livello planetario. Messaggio arrivato anche a Genova, dove hanno sedi aziende impegnate a rendere commerciabili i piccoli reattori nucleari di 4a generazione tanto cari al Ministro Salvini; che non vede ora di piazzarli nella sua Milano. Se sarà il nucleare a salvare l’umanità dal cambiamento climatico lo vedremo a breve. Di certo il suo rilancio passa da omissioni e false notizie per screditare il solare e l’eolico. Cominciamo dalle omissioni. Nell’articolo pubblicato il 28 gennaio dal Secolo XIX – “Il nucleare è necessario, Macron lo ha capito e sta investendo su di noi” – nulla si dice sul dato che oggi il prezzo di un chilowattore prodotto con il Sole è più basso di quello prodotto con Uranio: 40 dollari a MegaWattora (MWh) per il solare, contro i 150 del nucleare. E se le fonti rinnovabili hanno il difetto di una produzione intermittente, tutti gli amici dell’atomo fanno finta di non sapere che anche produrre energia di notte, come deve fare una centrale nucleare, quando si riducono fortemente i consumi di elettricità, richiede un sistema di accumulo pompando acqua in un bacino idroelettrico, da riportare a valle di giorno, quando aumenta la richiesta. Proprio come si con eolico e fotovoltaico, quando c’è una loro sovrapproduzione. Invece è una falsa notizia quella riportata dal XIX nella sua intervista a Stefano Buono, AD di NewCleo, il quale afferma che l’Italia non potrebbe vivere solo con energie rinnovabili in quanto “per garantire il giusto livello di storage dovrebbe usare tutto il litio del mondo”. Come abbiamo visto esistono altre possibilità di accumulo di energia elettrica oltre alle batterie a litio, ma sembra che il dr. Buono ignori che l’Italia sta già producendo a Cairo Montenotte e a Scarpino metano rinnovabile (biometano), a partire dagli scarti biodegradabili urbani e agroalimentari; metano immesso giorno e notte, estate e inverno, nella rete di distribuzione del gas. E il biometano, quando c’è ne fosse bisogno, può alimentare gli impianti a turbogas che rapidamente immetterebbero energia elettrica “verde” nella rete. Invece di investire in mini centrali nucleari dal futuro incerto, converrebbe farlo – con tecnologie già disponibili – in impianti per il biometano; a servizio di tutte le grandi aree urbane (vedi Genova). E fare a meno delle pesanti servitù delle navi gasiere (rigassificatori) che si vorrebbero ormeggiare davanti alle nostre città.
Federico Valerio
Bucci e Toti tecnocrati al basilico
Sempre provando a dare un’immeritata dignità teorica alle pratiche inconsulte di chi ci governa: cosa sta dietro all’apologetica del “Modello Genova/Liguria”? L’app (per usare un gergo alla moda) dell’algoritmo psico-informatico che un tempo avremmo chiamato “spirito del tempo”. Di cui vediamo l’attivazione nel nostro territorio, che ancora una volta si pretende “laboratorio del nuovo”. Anche se – in questo caso – non dovrebbe esserne troppo fiero. Ossia la traduzione in automatismi mentali (i paradigmi-guida nei feedback) dell’opportunità di accantonare il bug (leggi errore di funzionamento nel sistema socio-politico) che fa perdere tempo e inceppa l’efficienza/efficacia del fare. Noi lo ritenevamo democrazia E c’eravamo pure affezionati. Ma forse risultavamo soltanto degli insopportabili sognatori.
Scherzi a parte, quanto emerge in maniera palese nelle nostre vicende recenti applica una tendenza di lungo periodo: il superamento di regole e controlli in materia di grandi opere e azione pubblica in genere. La tendenza reiterata da almeno un trentennio – 1993-2022 – del ricorso ai tecnici nelle crisi ricorrenti del nostro sistema politico: i governi Ciampi (1993-94), Dini (1995-96), Monti (2011-13) e Draghi (2021-22). La ciclicità di tale opzione e il suo tacito sdoganamento politico come sintomo rilevante del mal funzionamento strutturale della democrazia dei partiti; rappresentativa, tout court. Quanto Diego Giannone, ordinario di Scienza politica nell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, definisce dirigismo tecnocratico; che riscrive l’intera costituzione materiale italiana (e anche formale, stante la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio), secondo uno schema operativo sempre uguale: privatizzazioni, tagli alle pensioni, austerity, ristrutturazione del mercato del lavoro. Un programma marcatamente neoliberale, che ormai mostra con chiarezza a vantaggio di chi operi; e a danno di chi. Nello specifico, in area ligure Bucci e Toti operano in permanenza per azzerare le conquiste inclusive e partecipative del dopoguerra. Traendo una presunta legittimazione dal principio berlusconiano che l’elezione è una sorta di unzione sacrale che autorizza il decisionismo incontrollato. E gli affaracci suoi.
Pierfranco Pellizzetti
AMBIENTE
La fragile bellezza di uno spazio sotto costante attacco
Alluvioni, che fare? Forse che sì, forse che no
La discussione sui ricorrenti disastri prodotti in Liguria dai torrenti assassini e sui possibili rimedi era stata avviata sullo scorso numero di Controinformazione da Andrea Agostini (“Questo scolmatore non s’ha da fare”), partendo dalle opere in via di attuazione sul Bisagno. Tesi oggetto di critiche, arrivate a bollare l’autore di “fondamentalismo ambientalista”, che ci sono pervenute (anche se non argomentate, nonostante le nostre reiterate sollecitazioni a farlo). Noi della redazione di questo web magazine non apparteniamo a nessuna scuola di pensiero idraulico. Dunque, ci troviamo nell’impossibilità di schierarci in tale querelle tendente al teologico. Preferiamo ascoltare chi ha qualcosa da dire sull’argomento. E buona parte delle argomentazioni raccolte – come anticipato nel primo spiffero di questo numero – tirano in ballo le responsabilità di amministrazioni che hanno anteposto la speculazione immobiliare alla tutela del territorio. Nel caso del torrente genovese, di cui ricordiamo gli straripamenti a partire dal 1970, l’impermeabilizzazione del terreno a seguito della cementificazione delle colline che fanno corona alla Valbisagno. E dopo le alluvioni e i suoi morti, che si è fatto? Niente. O meglio, si è colta l’occasione per commissionare opere come la copertura alla Foce che in tempo reale una commissione nazionale di esperti, riuniti in Provincia dall’allora presidente Marta Vincenzi, aveva definito “assolutamente inutile”. Però consentiva all’amministrazione del sindaco piacione, il sempre sorridente Beppe Pericu, di attribuire ben remunerati lavoretti ad amici degli amici. Un nome a caso? Tipo le Coop.
Ricordiamo tutto ciò non per intenti macabri quali disseppellire defunti, ma per tentare di ricostruire i passaggi cruciali che ci hanno portato sin qui: al dominio incontrastato della mercificazione dissipatoria; dopo che tre quarti della Liguria avevano visto svanire, già nella seconda metà degli anni Ottanta, la loro specializzazione competitiva novecentesca – basata sulla grande fabbrica partecipata dallo Stato – e le classi dirigenti, invece di riflettere sulle possibili uscite di sicurezza strategiche, si consacrarono all’affarismo di piccolo cabotaggio. La ricostruzione che dobbiamo a noi stessi; come pure ai morti nelle alluvioni di quest’ultimo mezzo secolo.
Un prosieguo della discussione a cui invitiamo le nostre amiche e i nostri amici, seguendo l’esempio dell’ingegner Stefano Camisasso, di cui mettiamo in pagina il contributo.
Pierfranco Pellizzetti
Riceviamo dall’ingegnere civile Stefano Camisasso:
A proposito dell’articolo di Agostini (e dell’ondata di ricordi che solleva)
Quando si discusse in Consiglio Comunale, una forza politica di cui ora rimane solo il nome combatté non contro lo scolmatore del Bisagno ma affinché l’Opera fosse dimensionata secondo linee razionali, economiche, efficienti ed efficaci partendo dagli elementi tecnici sottolineati da Agostini. Correttamente l’articolo evidenzia come il calcolo della portata del toente sia aleatorio non disponendo l’intero versante di una rete di pluviometri atti a correlare le precipitazioni con il livello di piena nelle varie sezioni trasversali del Bisagno tramite sensori di modestissimo costo. Tema che varrebbe una ricostruzione storica piuttosto che questo breve excursus! E va ricordato che le ultime alluvioni sono state causate da valori ben inferiori a quella drammatica del 1970: evidentemente l’impermeabilizzazione dei versanti dovuta all’attività antropica ha ben influito su quanto arriva in alveo. Parafrasando Totò (“ogni limite ha una pazienza”) si potrebbe dire che “ogni portata ha una precipitazione”. All’epoca si chiedeva – ma questo è un ricordare minimo rispetto alla ricchezza delle proposte fatte – un’opera massiva solo dopo essere intervenuti sui versanti per diminuire la quantità di pioggia che defluiva a valle nel rivo; interventi volti a restituire permeabilità al terreno e a rallentare il deflusso con vasche o altro. Si chiedeva inoltre di verificare e se necessario riprogettare anche la rete di caditoie che sembra oramai sottodimensionata al tipo di pioggia a cui la crisi climatica ci sta abituando. Questo per rammentare che un minimo di dibattito si è cercato di sollevare e per rammentare quanta abulia stava e sta negli interlocutori variamente addormentati a Sinistra. Non entro nel merito tecnico riguardante il vaso di imbocco. Gioverebbe comunque andarsi a rileggere il fondamentale parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per farsene un’idea.
Sulla terra allo sbocco direi – invece – che non ci siano particolari problemi: alla prima piena provvederà naturalmente il torrente a portarla via. Resta quindi il quesito “Sei d’accordo con Agostini?” La risposta è No, perché banalmente – dove banale non vuol dire facile – è tardi per tornare sui propri passi. Fermarsi vorrebbe dire non fare nulla, non “non fare lo scolmatore”. In fin dei conti l’eterogenesi dei fini ha solide basi a Genova dove – come si usa dire – queste discussioni per alcuni “son tutte messe dette…”.
Stefano Camisasso
POLITICA E ISTITUZIONI
Lo stato dell’arte delle regole e delle pratiche pubbliche
Liguria, la deindustrializzazione avanza
I dati di Unioncamere indicano un ulteriore calo di imprese nel primo semestre 2023: 2.500 su 159.078. E Toti sventola come successo personale l’aumento percentuale nel numero degli occupati, dimenticando il rimbalzo delle assunzioni dopo gli anni del Covid; il fatto che, diminuendo la popolazione, la semplice stabilità occupazionale crea percentuali apparenti; infine, il dato più importante è quello della qualità dell’occupazione. Che ovviamente viene ignorat. Infatti il settore in maggiore crescita è il turismo; sinonimo di impiego stagionale. Un lavoro a chiamata, precario e spesso dequalificato. Ma Alessandro Cavo, presidente di Confcommercio e vice presidente della Camera di Commercio di Genova, e Luca Mastripieri di CISL Liguria sembrano concordare nell’indicare come prima causa del calo delle imprese il ritardo nelle infrastrutture e nei collegamenti. Lettura parziale, derivata dalla visione di un ruolo subalterno della Liguria rispetto alla pianura padana. Come se bastasse un treno per portare sviluppo. Comunque in una regione già con una percentuale di infrastrutture autostradali e ferroviarie tra le più alte d’Italia.
Strano non si considerino altri fattori. In primis la diminuzione della popolazione residente e il suo invecchiamento. Altro fattore è l’orografia: rari spazi insediativi, con costi di acquisto più elevati delle regioni limitrofe, che quasi sempre necessitano sbancamenti, rafforzamento e sostegno di pareti collinari e altro. Non si parli poi delle aree dismesse. Chi andasse a Campi, alla Fiumara, ma anche all’ex Mammut savonese o la raffineria IIP alla Spezia non troverebbe attività produttive, ma solo GDO e multisala. Delizia per amministratori senza la minima idea di una politica industriale. E la diffusione tecnologica? Come non chiamare in causa l’Università, l’IIT e altri se qui mancano le nuove imprese della conoscenza. Le vecchie partecipazioni statali, pur coi loro difetti, erano l’unico luogo di scambio comunicativo con Università e ricerca. Gli ideologi fondamentalisti delle privatizzazioni hanno distrutto per pochi spiccioli realtà strategiche. Basti pensare all’Italimpianti, svenduta a spezzatino.
Eppure gli esempi positivi restano a portata di mano: a poche decine di chilometri, nella francese Sophia Antipolis, intelligenti politiche industriali hanno creato un polo basato sull’elettronica, dove in un ambiente accogliente lavorano ben 30.000 colletti bianchi estremamente qualificati. Noi ci accontentiamo di un treno.
Nicola Caprioni
Il mare potrebbe essere la soluzione. Se i nostri amministratori studiassero
Secondo gli ultimi dati del Forum Ambrosetti, nel ranking regionale la Liguria è al 16° posto per raccolta differenziata e sempre 16a per presenze di imprese femminili. Proprio un bel risultato, visto che le regioni sono solo venti. Stiamo meglio solo rispetto ad alcune realtà del sud. Stesso discorso per gli asili nido dei bambini da zero a due anni: le solite promesse annunciano l’innalzamento a 35.000 euro dell’Isee sociale, quindi, per oltre 22.000 famiglie con bambini sotto i tre anni. Il quattordicesimo posto per la percentuale di laureati è quasi un record. Riequilibrato dall’ultimo posto per produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Invece di buttare via i soldi in operazioni inutili (skymetro, tunnel Fontanabuona, tapis roulant e via dicendo), ci sarebbe una soluzione assodata da anni, potente e a emissioni zero, non inquinante nemmeno per la fauna, e già utilizzata in molti paesi. Non si tratta delle obbrobriose pale eoliche ma qualcosa di invisibile e ancora più efficace. E la Liguria sarebbe, tra le regioni, una di quelle che potrebbe applicarla meglio, visto che si tratta dell’energia marina. Le attuali tecnologie per sfruttarla sono diverse: la più nota e utilizzabile è quella delle maree provocate dall’attrazione gravitazionale della luna. L’Unione Europea sta lavorando da anni su una serie di progetti in fase di avanzata realizzazione: in particolare Francia, Regno Unito e perfino il Portogallo, che da tempo sperimenta i cosiddetti “anaconda”: giganteschi serpenti sottomarini che sfruttano le correnti. Secondo l’ENI, il moto delle onde potrebbe produrre oltre i 3/5 dell’energia elettrica necessaria. Certo, sono impianti costosi, ma si tratta di investimenti per il futuro, non spese inutili. Con la possibilità di adire ai fondi del PNRR per lo sfruttamento dell’energia del Mar Ligure. Addirittura utilizzando gli sbalzi di temperatura, tra superficie e profondità; presenti nel nostro mare; che ha acque fredde, di tipo atlantico-boreale, accanto a più calde, di tipo subtropicale. Perché siamo al palo? Per questioni economiche: le grandi imprese elettriche guadagnano di più comprando energia all’estero (magari dalle centrali nucleari francesi o svizzere) e facendocela pagare salata. Che fare? Il nostro potere sta solo nel voto: al momento giusto, a chi tiene alla propria e alle future generazioni, scartabellare tra gli impegni dei partiti per premiare chi ha cuore e cervello (ma non interessi diretti) per queste problematiche.
Carlo A. Martigli
SPAZIO E PORTI
Traffici e infrastrutture nella prima industria ligure
La lezione di Giacomino vale ancora. Ma a Genova se la ricordano?
Un’idea che viene da lontano, dai primi anni 60 del secolo scorso, quando Giacomino Costa ebbe l’intuizione di sbloccare l’intasamento del porto di Genova trasferendo via treno le merci nell’entroterra; per svolgervi le operazioni sino a quel momento eseguite nello scalo. E la scelta cadde su Rivalta Scrivia. Sicché ora viene proposta l’idea (per inciso, ad oggi osteggiata dal mondo portuale genovese) di concentrare le merci di tutto l’arco portuale ligure; in quantità tale da raggiungere quelle masse critiche atte a consentire di formare treni che raggiungano la lunghezza, la capacità e la regolarità per spingersi sino alle destinazioni oltralpe (Svizzera e Bassa Baviera, oggi servite dai porti del Nord Europa) con continuità e con volumi convenienti per ritorno economico e fidelizzazione di nuovi clienti. Operazione forse inutile se l’obiettivo rimane quello di mantenere il mercato del Nord Ovest nazionale; inevitabile se si entra nella logica che la sopravvivenza competitiva del nostro sistema portuale, oggi meramente regionale, deve valicare i confini nazionali. Cioè allargare il mercato, raggiungendo nuove destinazioni. Una strategia che i porti del Northern Range praticano da decenni. Ma che quelli liguri non possono presumere di applicare operando “svincoli e sparpagliati” dati i loro volumi ridotti; soprattutto se agiscono singolarmente, rispetto ai sistemi concorrenti. Nel terminal di Prà, pur forte della più alta movimentazione tra i porti liguri pari a 1,5 milioni di teu annui, dove partono con regolarità treni alla volta di Basilea e Stoccarda, la quota di container trasportata oltralpe si mantiene residuale rispetto a un significativo target.
D’altronde, se analizziamo i sistemi in atto nella portualità più evoluta emerge che la modalità prevalente nell’accesso ai mercati è quella ferroviaria coordinata con i retroporti. In questo modo si può contare su volumi costanti che garantiscono il riempimento e la frequenza dei treni. Avendo ben presente che ci confrontiamo con strutture portuali che movimentano 25 milioni di Teu/anno (Anversa e Rotterdam) contro i nostri 3 complessivi (Genova + Savona, che salgono a 4 con La Spezia). Ma su questo fronte non si avvertono progressi, nonostante proclami e convegni con le istituzioni piemontesi e lombarde. Eppure da qui deriva l’importanza di “fare sistema”. Sapendo che a tale scopo diventano indispensabili visione e volontà politica. In caso contrario Giacomino continuerà a rivoltarsi nella tomba.
Pierfranco Pellizzetti
Bucci, Bucci/ sento odor di peccatucci
Di fronte all’evidente difficoltà di relazionarsi democraticamente con la cittadinanza, forze sociali e le stesse imprese, da tempo la fama di Bucci ha cominciato a offuscarsi. Ora spicca l’incomprensibile decisione di spostare i depositi chimici da Multedo a Ponte Somalia, penalizzando l’assetto del porto commerciale e trasferendo il rischio dagli abitanti di Multedo a quelli di Sampierdarena. Eppure, all’inizio di questa penosa vicenda persino Bucci aveva preso in esame, insieme ad altre soluzioni, l’idea di sistemarli sulla nuova diga o nell’area ex ILVA. Ma poi, a seguito di un accordo riservato tra il Gruppo Gavio, concessionario di Ponte Somalia, con Superba Spa uno dei due proprietari dei depositi, con il viatico del presidente del porto Signorini, Bucci ha tirato dritto, ansioso di rinverdire la fama di “uomo del ponte” per la sua rielezione: la decisione solitaria di Ponte Somalia, destinando 30 milioni di euro pubblici, dote del Ponte Morandi, a favore degli interessi privati di Superba. Una dote destinata dalla legge alla relazione città-porto, cinicamente dirottata da Bucci ad avvelenarli. Ma ora su questa vicenda (e la vana promessa di completare l’opera in due anni, come con il ponte) Bucci si è giocato città e imprese. Difatti, anche Carmagnani, l’altro proprietario dei depositi, gli si è schierato contro. Mentre si attendono le sentenze del TAR sui vari riscorsi; oltre che gli attestati di sicurezza del nuovo impianto tuttora in discussione. Inoltre, nel 2023 il gruppo Messina, proprietario del terminal adiacente a Ponte Somalia, ha acquisito il 100% delle quote societarie della società del Gruppo Gavio; senza riferimento all’accordo con Superba, di cui si ignora la sorte. Insomma, una situazione paradossale, con gli abitanti di Multedo che continuano a vivere con i depositi sotto casa e la città presa in giro da una soluzione impraticabile – Ponte Somalia – e da una girandola inconcludente di soluzioni alternative. Sicché, sui depositi Bucci pare destinato a prendere una sonora facciata, perdendo un bel po’ di reputazione riguardo ai risultati della sua proverbiale gestione autocratica in materia di cosa pubblica. La morale dell’apprendista stregone è nota: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. Che per il manager che pretende di essere Bucci è già una lezione capitale. Quanto agli effetti di tale delirio, solo il ritorno della democrazia a scapito della pletora di commissariamenti straordinari, rimedierà alla sciagura.
Riccardo Degl’Innocenti
SALUTE E SANITÀ
La prima tutela in una regione che invecchia
Per gentile concessione di MicroMega riportiamo la parte introduttiva del saggio di Silvio Garattini, già vice presidente del Consiglio superiore della Sanità e consulente dell’OMS, apparso sul primo numero 2024 della rivista
Per una sanità pubblica secondo Costituzione
L’articolo 32 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”, Si tratta di un articolo rimasto a lungo piuttosto in ombra, perché è solo nel 1978 che si è realizzato il Servizio sanitario nazionale (Ssn), seguendo quanto Wiliam Beveridge aveva realizzato molti anni prima nel Regno Unito. Prima del 1978, nonostante la presenza dell’Inam, la gratuità degli interventi era limitata nel tempo e nelle risorse disponibili per cui gli indigenti non erano certo tutelati. Chi aveva risorse economiche si poteva curare, chi ne aveva poche aveva molte difficoltà.
Nel 1978 avvenne una rivoluzione; ma nel tempo il diritto alla salute è andato attenuandosi perché le risorse economiche disponibili sono state via via ridotte, medici e infermieri che vanno in pensione non sono stati sostituiti il numero dei letti diminuisce costantemente e così via. La percezione dell’inadeguatezza del Servizio sanitario nazionale si è acuita nel 2020 con la pandemia di Covid-19. L’impreparazione a un evento che non era affatto imprevedibile ha generato anche in Italia centinaia di migliaia di morti dovuti alla mancanza di mascherine, di letti di terapia intensiva e di strumenti per ossigenare. Una cattiva organizzazione ha causato anche morti non dovute alla Covid-19, ma al fatto che non ci si è potuti occupare di altre malattie. Infatti 1,5 milioni di persone non hanno partecipato agli screening per l’identificazione precoce dei tumori, non sono stati eseguiti 400mila interventi chirurgici e si sono effettuati oltre 1.000 trapianti di organi in meno rispetto agli anni precedenti. Passata la Covid-19, almeno in termini di gravi malattie respiratorie e di mortalità, grazie ai vaccini, le attività ospedaliere sono potute riprendere, ma si è accentuato un fenomeno già esistente in forma minore: l’allungamento delle liste d’attesa per diagnosi, visite, terapie e riabilitazione. […] Tuttavia chiunque in questo periodo abbia richiesto un intervento all’Ssn si è sentito offrire la possibilità di ricevere trattamenti rapidi, nell’arco di una settimana, pagando attraverso l’utilizzo dell’intramoenia, cioè l’esercizio di attività privata all’interno del servizio pubblico. Introdotta nel 1996 l’intramoenia rappresenta un’anomalia in contrasto con la Costituzione.
Silvio Garattini
FATTI E MISFATTI
Affarismi (o peggio) e miserie del potere, locale e non
Arsenale della Spezia: Crosetto spende soldi che non ha
Inizia in Parlamento il dibattito sul piano per ammodernare i siti della Marina Militare, denominato pomposamente “Basi Blù”. Riguarda tre basi: Taranto, Augusta e La Spezia. Peccato che manchino i soldi. L’operazione è finanziata con 559 milioni, mentre il costo è previsto in 1 miliardo e 760 milioni di Euro. Obiettivo del ministro Crosetto è aumentare ulteriormente la spese per la difesa. D’altra parte è lo stesso ministro che, recentemente, ha dichiarato che l’Italia dovrebbe mobilitare i riservisti.
Alla Spezia si intende modificare la darsena centrale dell’Arsenale. Si prevedono ben 14 punti per l’ormeggio di grandi navi, sino a portaerei, per i quali sarà necessario un dragaggio dei fondali, con i problemi d’inquinamento che, inevitabilmente, si trascinerà dietro, come è stato a suo tempo per i dragaggi del porto mercantile.
Sono previsti nuovi moli militari di fronte a Marola, nel quartiere sul mare, cui il mare è precluso dalle mura dell’Arsenale, e dove un forte movimento popolare “i murati vivi” si batte contro questa situazione. Saranno riattivati i serbatoi di carburante. In totale 350 milioni di investimenti e un cantiere, parte a terra e parte in mare, che durerà per 10 anni.
La cosa sorprendente è il silenzio completo dell’amministrazione comunale e delle forze politiche spezzine. Solo il movimento de “Le Ali a Spezia” ha assunto un’iniziativa sul tema, Rilevando, giustamente, che a parte le manodopera impegnata nel cantiere, il progetto non porterà nessun aumento occupazionale per la città. L’Arsenale, ragione fondante della stessa città della Spezia e motore iniziale dell’industrializzazione locale, che è arrivato a occupare sino a oltre 20.000 dipendenti, conta oggi qualche centinaio di persone, immobili cadenti, macchinari antiquati. Così che un ambiente, dove un tempo si costruivano corazzate, oggi è un luogo senza lavoro e senza personale.
Silenzio da parte del sindaco Peracchini, silenzio dai parlamentari spezzini, silenzio da parte della Regione Liguria.
Il ministro Crosetto ha commissionato a Rina e Fincantieri un piano di rilancio dell’Arsenale spezzino. Sino a questo momento di questo piano non si sa assolutamente niente. Non sarebbe giusto che lo si portasse a conoscenza dei cittadini, delle forze sindacali, delle istituzioni locali e dei partiti politici?
Nicola Caprioni
UNO SGUARDO DA LEVANTE
Cosa bolle in pentola nell’Est ligure? Testimonianze
Per le aree spezzine qualcosa di meglio delle cataste di container
La centrale termoelettrica “Eugenio Montale” della Spezia è stata inaugurata nel 1962, occupa una magnifica area di oltre 72 ettari a ridosso del centro città e vicino al mare. Per anni le sue ciminiere hanno causato gravi problemi d’inquinamento, soprattutto perché funzionavano a carbone. Per un lungo periodo è stata la più grossa centrale termoelettrica d’Europa, producendo più del 3% dell’energia elettrica nazionale.
Scartata l’ipotesi di una riconversione a turbogas, avanzata dall’ENEL e sostenuta dal presidente della Regione Toti, si è aperto un dibattito sulle possibilità di riutilizzo di un’area così vasta e pregiata.
Sono state avanzate ipotesi di utilizzare l’area, ancora di proprietà ENEL, per creare un centro di studio e una centrale a idrogeno, già finanziata con 14 milioni di Euro dal PNRR. Altre ipotesi propendevano per un’area destinata all’energia solare o a un investimento per l’automotive elettrico. L’ENEL ha scartato tutte queste soluzioni, annunciando la realizzazione di un centro per batterie ad accumulo di energia, forse con il contorno di un po’ di fotovoltaico. Tali scelte portano a un deciso sottoutilizzo dell’area stessa e alla rinuncia di piani ambiziosi di sviluppo di energia pulita e di possibile nuova occupazione.
Il sindaco della Spezia Peracchini tace, non ha idee proprie, non ne ha mai avute. Attende che Toti gli suggerisca cosa dire.
Si fa così avanti l’Autorità Portuale che con un’intervista della sua segretaria generale rivendica l’utilizzo dell’area per le attività portuali e per la nautica da diporto. Sarebbe ben triste vedere quell’area intasata dai container, che non portano grande occupazione e men che meno in settori a tecnologia avanzata. In più deturpano un territorio che al devastante accatastamento dei container ha già dato molto, particolarmente nelle aree di Santo Stefano Magra.
A latere di questa polemica si è inserito lo scrittore Maurizio Maggiani, che propone di non abbattere l’ultima ciminiere, simbolo dell’inquinamento subito dai cittadini, come testimonianza di un’epoca
Nicola Caprioni.
I depuratori di Città Metropolitana: devastazioni a caro prezzo
La Legge Delrio ha prodotto la totale perdita di valore del territorio, ha silenziato le sue appartenenze e ridotto a zero la democrazia partecipata. Chi vive nel Tigullio nomina questa istituzione e pensa subito al prossimo danno che saprà arrecare all’ambiente. Spesso ci si chiede il perché dell’abolizione delle Provincie e – soprattutto – delle sue competenze. Oggi si vive nel timore di nuove e sempre più gravi “invasioni di campo”, di progetti catapultati sul territorio senza alcun dialogo con le popolazioni. I partiti “nazionali” sono sempre più silenti, superati da aggregazioni locali per lo più riferibili al centro-destra.
Ora Città Metropolitana indica due siti per realizzare mega-depuratori: a Chiavari nella preziosissima area portuale, a Sestri Levante nella zona alluvionale della Ramaia. L’impianto di Chiavari ha un costo altissimo e sarà pagato in bolletta da Iren, così come quello di Sestri. Il bilancio democratico rileva due Comitati per dare voce alle popolazioni locali; reazione al totale silenzio istituzionale. Sempre Città Metro, con la competenza di Regione Liguria, detta norme e progetti per la messa in sicurezza dell’Entella e del Rupinaro. Dunque? Una mega diga nel paradiso ortivo della Piana dell’Entella e una serie di interventi sul corso del Rupinaro: rifacimento argini e la previsione di uno scolmatore, si parla di trenta milioni di costi. Sembra proprio che il carattere di questi Enti lontani da chi vive sul territorio sia l’imprevedibilità, inseguendo interventi destinati a stravolgerlo definitivamente. La carenza di un quadro politico di riferimento ha cancellato la presenza di partiti autorevoli, gruppi dirigenti capaci d’attivare il dibattito, l’informazione per poter partecipare a confronti democratici. Le sedi dei partiti sono buie e spesso abbandonate. Oggigiorno – invece – arrivano SuperBucci e Totilik con le loro opere da milioni di euro, muri, buchi, cemento e tondini d’acciaio: una formula che non prevede il confronto. Per un momento avevamo tirato un sospiro di sollievo col mega mortaio da pesto gonfiabile! Un’operazione penosa e mortificante per il valore culturale della tradizione ligure ma che almeno faceva ridere. Qualcuno propone una semplice “aguggia” (ago, sul Devoto-Oli) per rimediare a tali scempi-sprechi. In attesa del ritorno alla politica, quale strumento fondamentale per la soluzione dei problemi della gente. Per ora – purtroppo – prevale il mortaio gonfiabile! Pazienza. Ma c’è ne vuole davvero tanta.
Getto Viarengo
UNO SGUARDO DA PONENTE
Cosa bolle in pentola nell’Ovest ligure? Testimonianze
I fiumi, un’altra riserva d’acqua è ancora possibile!
Sabato 20 gennaio si è tenuto a Ventimiglia, organizzato dal Lions Club e patrocinato da Comuni, Provincia e Regione, il convegno “Diamo da bere al Roja – Rinaturalizzare e ricaricare la falda del nostro fiume perché continui ad essere preziosa risorsa”, interessante oltre le aspettative relativamente ad alcune emergenze dell’estremo Ponente.
Partendo dalla fragilità del nostro territorio e dalle urgenze dettate dai cambiamenti climatici, gli esperti intervenuti hanno evidenziato la possibilità della messa in opera di azioni non gravose economicamente, socialmente compatibili, e non impattanti dal punto di vista ambientale, che ben si adattano alla delicata morfologia del nostro territorio. A detta dei relatori, se dal 2002 ad oggi le crisi idriche non hanno ancora trovato soluzioni, dighe e grandi opere sono superate per i lunghi tempi di realizzazione e finanziamento, i costi onerosi e i rischi di speculazioni. Oggi le soluzioni alternative ci sono, sono praticate e riconosciute scientificamente.
Sono stati citati esempi realizzati in Toscana, nel fiume Serchio per esempio, attraverso schemi di geo-ingegneria sono state adottate soluzioni per incrementare la ricarica naturale della falda, i pozzi di ricarica, preservando e immettendo acqua nei periodi in cui è disponibile, nel grande serbatoio in cui naturalmente si trova, ovvero nel sottosuolo.
I costi quantificati, per un valore medio di 300 mila euro nei tempi esecutivi di un anno, equivarrebbero a meno della metà di quelli stanziati per il solo progetto di fattibilità della diga in Valle Argentina, a fronte di un costo di realizzazione ipotizzato di circa 60 milioni di euro. Anche per l’entroterra, salvaguardare e implementare le risorse idriche disponibili vuol dire preservare i prelievi potabili, prevenire il rischio idrogeologico e aumentare la captazione dalle sorgenti ad oggi inutilizzate.
Comitati spontanei e associazioni locali della Provincia di Imperia si sono uniti per promuovere l’appello “Le nostre vite e il nostro territorio valgono più di qualunque profitto”.
Difendiamo tutte e tutti insieme il nostro territorio dalla minaccia di nuova cementificazione e di nuovi progetti insopportabili per la popolazione come la diga in Valle Argentina e torniamo a prendere in mano le nostre vite, perché il territorio, l’ambiente, il paesaggio e l’acqua sono un bene comune incompatibile con le regole del mercato.
Daniela Cassini e Mauro Giampaoli
PASSEGGIATE D’ARTE
Le bellezze dimenticate da riscoprire
Giovan Carlo Doria ritratto da Rubens
La fortunata vicenda del ritratto equestre di Giovan Carlo Doria
Giovan Carlo Doria fu il più importante collezionista d’arte nella Genova di primo Seicento, uomo non d’armi, ma di finanza e con la passione per la pittura, riuscì a creare una quadreria di oltre seicento dipinti, dei quali il pezzo di maggior rilievo era il suo celebre ritratto equestre, realizzato da Rubens nel 1606. La “professione a cavaliere dell’Ordine di San Giacomo”, datata 28 dicembre 1612; epilogo di una lunghissima pratica iniziata con una “supplica” del 1603. Il Re di Spagna Filippo III l’8 luglio 1606 comunicò all’Ordine la volontà di conferire le insegne al Doria, decisione da comunicare entro trenta giorni. È probabile che proprio tale comunicazione abbia convinto Giovan Carlo a commissionare il dipinto, in cui appare già con la croce dell’Ordine, pur non avendone ancora vestito l’abito (1610) nè prestato giuramento (1612). Da uomo pratico qual era il Doria nel 1606 approfittò della presenza a Genova di Rubens, che realizzò nello stesso anno un ritratto del padre Agostino, oggi perduto, e quello della cognata Brigida Spinola.
Al di là della prepotente bellezza dell’opera, straordinaria per la forza compositiva e per la capacità pittorica innovativa, del tutto particolari sono le vicende che interessarono il dipinto: infatti, già segnalato nell’inventario di Giovan Carlo redatto entro il 1617 e in tutti i successivi della quadreria allestita nel palazzo in vico del Gelsomino, il dipinto passò al figlio Agostino e nel 1640, dopo la scomparsa di quest’ultimo, al fratello Marcantonio Doria; e se ne fa ancora menzione nella quadreria di Marcantonio IV Doria. Successivi passaggi ereditari determinarono il trasferimento del ritratto a Napoli, dove venne esposto nel palazzo dei Doria d’Angri e rimase fino al marzo 1940 quando fu messo in vendita. La domanda di esportazione che la nuova proprietà presentò il 18 giugno 1940 ebbe il diniego da parte del Ministro dell’Educazione Nazionale su conforme parere del Consiglio Nazionale dell’Educazione, ma nel 1941 il dipinto fu ceduto ad Adolf Hitler che lo destinò al museo di Linz. Il 16 novembre 1948 il ritratto fu restituito all’Italia e trasferito a Firenze in Palazzo Vecchio, dove rimase fino al 1985, anno in cui prese nuovamente la strada di Napoli dove fu collocato in deposito presso il museo di Capodimonte. Finalmente nel 1988 la tela ritornò a casa. Infatti fu definitivamente assegnata alla Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola, dove la si può ammirare e restarne estasiati.
Orietta Sammarruco
GENOVA MADRE MATRIGNA
Al centro di una regione centrifuga
Giuseppe Pippo Marcenaro,
Genova 30 marzo 1942/1 febbraio 2024
Ogni tanto anche io andavo a trovarlo nella sua casa straripante di libri, quadri, ricordi. E si parlava della Genova che fu, appartata e aristocratica; forse una chimera, ma sempre affascinante coltivando quella ricerca della distinzione che selezionava gli interlocutori sul metro del gusto/disgusto. Spesso Pippo mi telefonava per commentare l’ultima uscita di Controinformazione Ligure, di cui apprezzava l’attitudine irridente nei confronti dei pretenziosi inadeguati che ormai popolano gli organigrammi locali del potere. Di cui aveva scritto anche per noi. Difatti la rubrica “Genova madre, matrigna” era stata pensata proprio a sua misura. Pierfranco
In morte dell’ultimo borghese
Come suo solito, Genova è stata irriconoscente verso ‘Pippo’ Marcenaro, grande intellettuale e ultimo borghese, in una città ormai nelle mani di cafoni e mezze calzette, incapace addirittura di trovare personalità in grado di ricoprire l’incarico di assessore alla cultura. Probabilmente ritenuta inutile.
Marcenaro ha ricambiato donando a Genova i suoi beni più preziosi: la biblioteca e l’archivio, con i quali intrecciava la sua stessa vita.
“Devo trovar loro – mi disse una volta – una nuova casa che sia anche la mia casa”. Chi, a Roma, ha visitato la ‘Casa della vita’ di Mario Praz, sa cosa questo significa.
Quei libri e quell’archivio, dal valore incommensurabile, a quanto sappiamo giacciono in parecchie centinaio di scatoloni, nei fondi della biblioteca universitaria, a Principe.
Lascito imbarazzante per quanto rimane della cultura a Genova e in Liguria. Eppure spetta proprio a noi genovesi trovare loro quella casa ‘della vita’ che non siamo riusciti ad assicurare a Marcenaro; sloggiato dalla storica abitazione di Salita Santa Brigida, in cui l’ascensore – avvertiva sempre Pippo – non arrivava all’altezza della porta d’ingresso.
Quell’antica casa – dalla bellezza documentata in numerosi ‘servizi’ giornalistici – rimarrà tuttavia indimenticabile e irripetibile anche nel più rispettoso degli allestimenti.
Una volta, chiacchierando nel suo studio, Marcenaro si interruppe per dirmi: “Vedi, quella poltrona su cui sei seduto, è stata occupata da Luzi, Caproni, Montale.” Inutile nascondere che il mio primo impulso fu di alzarmi da quella postura profanatrice.
Caro Pippo, spero almeno che la nuova casa corrisponda ai tuoi gusti. Del resto, ti sono sempre piaciuti i cimiteri, “i luoghi più inverosimili mai inventati dall’uomo”.
È ora nostro dovere dare una casa degna alla tua amata biblioteca. Qualcuno aveva già suggerito – molto opportunamente – la derelitta, la vandalizzata ‘Villetta’ del custode, alla Villa Di Negro. Scelta più che opportuna, che restituirebbe visi-vivibilità a un luogo tra i più affascinanti, ma in abbandono e pericolosi, della Superba. Sarebbe anche l’occasione per dare finalmente alla città un centro per gli studi sulla straordinaria stagione novecentesca della cultura sulla Riviera ligure.
Il modo migliore per rimediare tardivamente all’indifferenza – talvolta ostile – mostrata dalla nostra città nei confronti del suo ultimo borghese. Dopodiché, tutti a Portello, all’inaugurazione del nuovo parcheggio riservato a personaggi ‘eccellenti’.
Michele Marchesiello
Antropologia culturale di una delegazione: Prà
L’etno-psichiatra francese Tobie Nathan, in un intervento alla Facoltà di Psicologia di Torino, raccontò di certi suoi fallimenti terapeutici quando incontrava pazienti provenienti dall’Africa profonda e di come decise di farsi affiancare da un guaritore africano, che coi suoi “strumenti” fece invece accettare il lavoro del medico.
Anni dopo conducevo una formazione per docenti a Prà con un giovane collega nato e residente lì. Ero in seria difficoltà, non si riusciva a creare un gruppo collaborante per progetti scolastici futuri, l’aula restava frammentata in tanti gruppetti separati.
All’ultimo incontro paleso il mio vissuto e chiedo ai presenti di aiutarmi a capire. Ed ecco svelarsi, attraverso i loro racconti, l’antropologia del luogo e la chiave di lettura. Non si trattava di gruppetti recalcitranti, si trattava di storie di un intero paese, di migrazioni successive, di apartheid urbanistico, scelto o patito.
I primi furono i contadini, scesi a valle per lavorare nelle fabbriche, pur mantenendo rapporto con la terra, poi i lavoratori dal Sud, attratti dall’industria, infine gli extracomunitari con storie e bisogni diversi. Insomma, non integrazioni, ma più “enclave”, contenitori protettivi per persone intimorite da dispersione e contaminazione.
Da qui aneddoti come: “Se il mio panettiere è in ferie, non vado a comprare da quello dell’altro quartiere”. Al tempo stesso il collega ammise che “rinunciava a prendere il caffè se il suo bar era chiuso”. Invece di dipingere i Liguri come diffidenti e ostili, guardiamoli con l’occhio dell’antropologo moderno, leggiamo negli atteggiamenti delle persone le storie, il bisogno di riferimenti visivi e olfattivi, di segni familiari. Se la ligustica enclave vede l’altro come alieno, non è in una genetica ostilità che andrebbe cercata la causa, ma in un modo di gestire il territorio nei secoli come sovrapposizione di simboli e segni sui simboli e i segni che facevano parte della cultura, della storia e della psiche dei residenti. Ne verrebbe fuori una ricchezza di storie, di significati e di prospettive verso cui lavorare invece di continuare a calare dall’alto improponibili “soluzioni” come un esercito di colonizzatori. Alla fine di quel sofferto corso a Prà, tutti i gruppetti raccontarono la loro storia non sentendosi uguali, ma “vicini”. È sulla condivisione delle storie e dei bisogni che si fondano il senso di una comunità e un progetto, senza soffocare nessuno in nome di una presunta superiorità.
Maura Rossi