SAPERE PER DECIDERE
CONTROINFORMAZIONE LIGURE
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Numero 20, 15 aprile 2024
Indice
- SPIFFERI
- C’E’ POSTA PER NOI
- ECO DALLA RETE
- GLI ARGOMENTI DEL GIORNO
- AMBIENTE
- POLITICA E ISTITUZIONI
- SPAZIO E PORTI
- SALUTE E SANITÀ
- FATTI E MISFATTI
- UNO SGUARDO DA LEVANTE
- UNO SGUARDO DA PONENTE
- GENOVA MADRE MATRIGNA
- PASSEGGIATE D’ARTE
SPIFFERI
La Regione dalla parte dei pirati della strada (che votano a destra?)
Segnaliamo il manifesto educational di Regione Liguria: un uomo attraversa correndo le strisce pedonali con le cuffie sulle orecchie. E un’auto minacciosa che lo sta per investire. Se lo facesse avrebbe torto marcio. Ma quella foto dice l’opposto: che i pedoni sono degli incoscienti che corrono sulle strisce senza guardarsi intorno, distratti dalla musica. Insomma, si dà loro subdolamente degli idioti, che concorrono all’incidente. Manifesto del tutto sbagliato sotto l’aspetto della comunicazione. E il titolo ancora più sbagliato: non è stato un incidente. Come a dire, pedone, è anche colpa tuta. Bastava aggiungere l’auto correva troppo, e in parte si sarebbe rimediato. Ma dove li trova Toti certi pubblicitari? Tra i piloti di rally? Tra i proprietari di Suv, magari suoi elettori?
Arricchiamo il nostro vocabolario: pantouflage
Ogni giorno se ne impara una nuova: il termine pantouflage (alla lettera, “porta girevole”) viene attualmente usato nel caso di alti funzionari ingaggiati con elevati emolumenti da imprese private, che costoro avevano favorito nella precedente posizione garantendogli business milionari. Noi liguri dobbiamo memorizzarlo d’urgenza, altrimenti non sapremmo come raccontare le mosse del presidente di Autorità Portuale di Genova Luigi Merlo, che a fine mandato viene assunto proprio da MSC, che aveva fruito del suo occhio di riguardo nell’assegnazione degli spazi portuali (tipo Bettolo?); o il suo epigono Marco Rettighieri, nominato da Bucci responsabile per l’attuazione della diga foranea di Genova nel 2019 e che nel 2021 passa alla presidenza di Webuild, l’impresa appaltatrice dell’opera.
Geoeconomia spicciola per un sindaco spendaccione
“Il mondo cambia così/ un po’ per volta ogni dì” cantava Renato Rascel nella parte di Policarpo de’ Tappetti, mezzemaniche naif. Ancora più naif di Policarpo, il nostro sindaco faso tuto mi non sa che il mondo sta cambiando. A partire dal settore più esposto alle turbolenze nella geoeconomia: la portualità, nel declassamento della via mediterranea. Huti costringendo, la rotta dal Far East via Suez viene sostituita dal periplo dell’Africa, sicché le navi entrando da Gibilterra prima di Genova incontrano già Algeciras e Tanger Med. Intanto diventa sempre meno futuribile la rotta artica per collegare Cina e Giappone con Nord Europa e America atlantica. Se questa è la tendenza, forse è anche finita l’epoca del gigantismo navale. Cui destiniamo la montagna di soldi della nuova diga foranea.
C’E’ POSTA PER NOI
Un appuntamento da non perdere
ECO DALLA RETE
“27 marzo 2024 Gedi e il gruppo Msc raggiungono un’intesa preliminare per la cessione del Secolo XIX”. Ogni tanto Marco Preve, rintanato nella redazione genovese de la Repubblica, si sveglia. E allora lo leggiamo con interessa. Come nel lungo testo postato su Fb di cui pubblichiamo uno stralcio, che racconta cosa sta succedendo all’interno del suo gruppo editoriale. Anche perché la vicenda riguarda la vendita all’incanto dell’ultima testata ligure sopravvissuta.
La grande dismissione. Narrata dai superstiti (per ora) del Gruppo Gedi
«Cronistoria asettica di Gedi; da quando la famiglia De Benedetti ha ceduto il gruppo agli Elkann. Del cui acquisto non si è compreso il senso imprenditoriale, smantellato senza alcuna strategia, con testate rimpiazzate da siti di marketing e vendita di prodotti. L’editoria è un settore in crisi, ma tenuta e rilancio passano attraverso la passione di chi possiede e amministra le testate giornalistiche, avendone a cuore identità e indipendenza.
2 dicembre 2019: ufficializzato il passaggio di Gedi da Cir a Exor. In quel momento è il primo editore di quotidiani in Italia, leader per audience nell’informazione digitale e uno dei principali gruppi radiofonici, con 3 emittenti nazionali, tra cui Radio Deejay.
John Elkann: «Con questa operazione ci impegniamo in un progetto imprenditoriale, per accompagnare Gedi ad affrontare le sfide del futuro. Exor assicurerà la stabilità necessaria»
23 aprile 2020: appena formalizzato il cambio di proprietà, viene licenziato in tronco il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli.
9 ottobre 2020: Gedi comunica un accordo per la cessione del ramo d’azienda delle testate il Tirreno, la Gazzetta di Modena, la Gazzetta di Reggio, la Nuova Ferrara.
13 dicembre 2020: Interrotte le pubblicazioni di Micromega con una mail.
25 novembre 2021: accordo per la cessione de La Nuova Sardegna.
7 marzo 2022: accordo per la cessione dell’Espresso.
24 gennaio 2023: voci di cessioni a Repubblica, risponde John Elkann: «Sono voci che mirano a generare instabilità. Repubblica è parte integrante di Gedi, e sta andando bene».
27 marzo 2023: offerte per i quotidiani veneti il Corriere delle Alpi, il Mattino di Padova, il Messaggero Veneto, la Nuova di Venezia e Mestre, Il Piccolo, la Tribuna di Treviso e Nordest Economia. Accordo formalizzato il 23 ottobre.
6 giugno 2023: offerta per la Gazzetta di Mantova, formalizzato il 29 settembre.
dicembre 2023 – gennaio 2024: si rincorrono voci sulla cessione di Radio Capital e Radio Deejay. Quelle su Repubblica girano da almeno due anni.
Febbraio 2024: trattative per la cessione della Provincia Pavese.
27 marzo 2024: tra Gedi e il gruppo Msc intesa preliminare per la cessione del Secolo XIX.
Maurizio Scanavino (AD del Gruppo, oltre che della Juventus): «Gedi punterà ora su due obiettivi prioritari: cogliere le potenzialità della transizione digitale e sviluppare iniziative e di intrattenimento». La parola giornalismo non compare».
Marco Preve
ECO DELLA STAMPA
Il 26 marzo Marco Preve scrive su la Repubblica di Genova che l’appalto per la maxi-diga genovese da 1,3 mld. è oggetto di indagine penale e contabile. Riportiamo ampi stralci del suo articolo.
Per Anac le varianti concesse a Webuil sono illeciti
«L’Anac, Autorità Nazionale Anti Corruzione ha trasmesso alla Procura della repubblica e al Procuratore regionale della Corte dei Conti di Liguria la propria delibera del 20 marzo che individua non solo profili illegittimi, ma anche potenzialmente illeciti, nelle modalità con cui venne strutturata la gara – o presunta tale – d’appalto nonché una serie di soluzioni tecniche in essa adottate che rappresenterebbero un favore al consorzio Breakwater e in particolare alla capogruppo Webuild. Va detto che in questi quasi due anni di scambi epistolari il Commissario per la diga e l’Autorità Portuale hanno soprattutto tentato di disconoscere la titolarità di Anac a valutare il loro operato. Azioni che non hanno fermato l’Anticorruzione ma hanno reso impossibile una eventuale trattativa di mediazione.
L’epilogo ipotizza reati penali ed erariali da parte del Commissario Straordinario per la ricostruzione post crollo del Morandi (il cosiddetto decreto Genova) ovvero il sindaco Marco Bucci, e per il Commissario straordinario per la nuova Diga foranea Paolo Signorini (carica oggi ricoperta da Bucci). Due sono le principali contestazioni di Anac. Una affonda le radici nella tragedia del viadotto Polcevera, l’altra nelle profondità marine. L’Anticorruzione contesta la titolarità della diga quale opera rientrante nelle caratteristiche previste dai finanziamenti del Decreto Genova e a beneficiare dei fondi del Pnrr.
Il secondo punto è inquietante. Per l’Anticorruzione è un’anomalia aver concesso a Webuild la modifica contrattuale che stabilisce quanto richiesto dal colosso delle costruzioni: «qualora – a valle dell’esecuzione dei nuovi sondaggi e dei campi prova necessari alla redazione del Progetto Definitivo e/o Esecutivo – dovesse intervenire la necessità di apportare modifiche al progetto e/o alle modalità operative di esecuzione dell’Opera, tali modifiche saranno considerate come varianti». Il fatto è che per l’Anac «le probabilità che le caratteristiche geotecniche e geologiche si rivelino difformi sono praticamente certe, anche se non si sa in quale entità». Quindi Webuild sa già di avere in tasca i fondi per le costose varianti. Il nodo è la profondità. Quella di Genova sarà la prima diga al mondo a poggiare su fondali di 50 metri. Se il rischio di imprevisti e quindi di moltiplicazione dei costi è alto si deve avere un “piano B”. Che potrebbe essere quello – non escluso dal viceministro Edoardo Rixi – di arretrare la diga alla profondità di 30 metri».
Marco Preve
Ed ecco che il 5 aprile arriva un’integrazione di Andrea Moizo:
Ha ragione Salvini: la Diga la vogliono tutti, a Destra e a Sinistra
«Senza considerare l’ipotesi di fondo sbagliata, nel 2020, come nel 2024 come nel 2030: i traffici nl porto non crescono, non cresceranno e non lo potranno fare non perché mancano banchine, piazzali, binari ecc. ma perché consumi/produzione del suo bacino di utenza ristagnano o calano e così continueranno a fare per ragioni evidenti a tutti (la regressione economica dell’Europa occidentale di cui l’Italia è all’avanguardia) slvo inversioni di tendenza oggi del tutto NON alle viste. La demenziale replica che sono proprio investimenti come questi (dighe, ponti, strade) a invertire la tendenza di un’economia sviluppata agonizzante (per carenza di un sacco di cose fuorché di infrastrutture) è il refrain di cementieri e cementecatti che comandano in questo paese…».
Andrea Moizo
GLI ARGOMENTI DEL GIORNO
LA LINEA GENERALE
Una visione d’insieme sullo stato dell’arte regionale
Marco Bucci sulla tolda del Titanic Diga foranea
Il famoso e iper-lodato ‘metodo Genova’ rischia di diventare ‘famigerato’.
La vicenda della nuova diga foranea di Genova testimonia questa impudente degenerazione nel quadro di una serie di inadeguate analisi tecniche, conflitti di interesse e veri e propri abusi rilevati da autorevoli esperti, dagli organi di controllo giurisdizionale, amministrativo e – ora – anche contabile e penale. Una raffica di procedimenti rischia di affondare il Titanic varato a Genova con una solenne cerimonia inaugurale.
Ci limitiamo all’elenco di quelle che l’Autorità Anticorruzione chiama ‘criticità’.
La prima consiste nell’aver surrettiziamente legato l’opera al crollo del ponte Morandi e a quel ‘sistema Genova’ che ne è filiazione diretta. Quel ‘sistema’, del quale ci si è sveltamente appropriati, consente – in casi eccezionali e di assoluta gravità – di fare a meno delle procedure di gara nell’affidamento di opere particolarmente importanti, oltre all’opportunità di proseguire nei lavori anche in caso di annullamento giudiziale delle relative procedure, lasciando al risarcimento – pubblico – degli eventuali danni il compito di rimediare alle conseguenze dei lavori illegittimamente proseguiti. Il collegamento al crollo del Morandi è stato assicurato dall’incongrua nomina del sindaco di Genova, Marco Bucci, già preposto alla ricostruzione del ponte, a commissario per la costruzione della nuova diga foranea (e, per soprammercato, anche per la realizzazione del tunnel sub-portuale). L’ANAC ha sottolineato la totale mancanza, quanto alla diga, del requisito della estrema urgenza. Pertanto la scelta della procedura negoziata è da ritenersi illegittima.
La seconda criticità è stata ravvisata nel mancato rinnovo della procedura a seguito della prima andata deserta. La terza criticità riguarda il mancato aggiornamento del prezziario col conseguente restringimento della concorrenza in fase di gara. La quarta criticità investe l’assenza di criteri per attribuire i punteggi in vista della graduatoria di gara, con indebita alterazione delle condizioni iniziali.
Quest’ultima ‘criticità’ implica la critica più severa rivolta alla gestione dell’opera, perché mette a nudo la circostanza che il progetto non era corredato, sin dall’ inizio, delle necessarie indagini e prove geotecniche e geologiche. Il progetto stesso era quindi ‘ab origine’ aleatorio in assenza – per di più– di una soluzione alternativa.
Il viaggio inaugurale del Titanic rischia così di interrompersi prematuramente.
Michele Marchesiello
Rianimare la politica, sequestrata da Bucci e Toti
Umberto Risso, presidente di Confindustria Genova, è di certo un conservatore ma altrettanto una persona per bene. Sull’ultimo numero di Genova Impresa – l’house organ dell’associazione industriali – firma un editoriale intitolato “governare l’onda”, in cui propone “l’obiettivo di mettere stabilmente in comunicazione territori, settori economici, imprese, istituzioni, individui chiamati a condividere informazioni, ma soprattutto opportunità”. Se colleghiamo questo testo con l’articolo di un leader industriale quale Tonino Gozzi, che riproduciamo nella sezione Politica e Istituzioni di questo numero del nostro magazine (“si ha talvolta la sensazione che l’IIT sia ancora un’astronave atterrata sulle colline di Morego il cui equipaggio non è ancora sceso in città”), salta fuori un quadro che somiglia in maniera lampante a quanto proponiamo da sempre, quale ricetta per uscire dal declino territoriale che ci affligge: l’avvio di un percorso strategico condiviso da tutte le forze vive della politica e della società, che promuova, attraverso piani industriali su base regionale, una specializzazione competitiva portando a proprio vantaggio la fertilizzazione incrociata tra tessuto d’impresa e centri di ricerca localizzati.
Esattamente il contrario di quanto ci propinano gli attuali amministratori. Ossia la mercificazione dello spazio ligure, nella comune visione di tipo padronale che ispira il loro rapporto con le istituzioni; che pure abitano pro tempore: nessun controllo sul loro operato e nessun dialogo con la società. Una visione possessiva declinata a seconda delle rispettive mentalità: per l’uomo Mediaset Toti l’inseguimento dell’idea di Liguria tipo entertainment, dormitorio di lusso per milanesi ed effetti speciali promo-pubblicitari per i residenti; l’uomo dal braccio d’oro Bucci la fregola di spendere il tesoro piovutagli dal cielo in grandi opere, vuoi inutili (Skymetro) vuoi ad alto rischio (Diga). Entrambi dedicati a creare la bolla fatalistica in cui è imprigionata una pubblica opinione in over-dose da meraviglioso fasullo. L’opera di rintontimento di massa che svilisce a rituale la vita pubblica e rinvia sine die l’impegno a scogliere i nodi che strangolano la regione; che richiederebbe quel bagno di realtà che governi l’onda del cambiamento, risvegli la cittadinanza all’impegno civico; richiami l’IIT al suo impegno statutario del trasferimento tecnologico. Invece di giocare al piccolo chimico/fisico a spese dei fondi pubblici.
Pierfranco Pellizzetti
AMBIENTE
La fragile bellezza di uno spazio sotto costante attacco
Proseguiamo la discussione su “tram vs. skymetro” in Valbisagno, avviata sullo scorso numero di Controinformazione dal contributo di Roberto Guarino, con l’intervento di Rinaldo Mazzoni, del Comitato “Sì Tram”
Perché il tram vince sulle altre soluzioni
Negli ultimi tempi il tram è diventato protagonista in dibattiti pubblici e discussioni.
Il tema uscì dalla cerchia ristretta di sostenitori ed ebbe una ribalta nel 2011, quando il Sindaco Vincenzi istituì un Dibattito Pubblico per la scelta di un vettore per la Val Bisagno. E venne scelto il tram. Nel 2017, il Sindaco Bucci lo sostenne all’inizio del suo primo mandato per poi cambiare idea e sostenere il suo esatto opposto, dal punto di vista urbanistico e trasportistico: lo skymetro. Anzi, proprio il dibattito sullo skymetro ha infiammato la discussione sul tram, proposto dal comitato che vi si oppone. I vantaggi sarebbero enormi.
Arriviamo subito al punto: la causa maggiore di discussione sono le strade strette di Genova che non permetterebbero “il lusso” di ospitare anche un tram.
Intanto verrebbe da dire che il problema dovrebbe essere più per le automobili, visto che un’auto occupa 10 mq per una persona trasportata, mentre il tram o l’autobus in 10 mq. ne trasporta 40 e anche 60. Ma proviamo a proseguire nel ragionamento, senza affrontare argomenti come l’”evaporazione del traffico” oppure il “traffico indotto”.
Una corsia per le automobili ha una capacità di 700/1.000 persone l’ora, mentre una per il tram ne fa transitare 4.000 fino a 7.000: avere una corsia per il tram è come averne almeno 4 per le auto. In una strada a carreggiata singola, con una corsia per senso di marcia, è possibile trasformarne in riservata una e lasciare l’altra libera, per consentire comunque l’accesso ai varchi privati. Chi conosce la Valbisagno, sa che nella zona a monte di Staglieno fino a Prato la quasi totalità dei residenti si trova sulla sponda destra; servita, appunto, da una strada a carreggiata unica e la soluzione potrebbe tranquillamente essere quella. Non ci vuole molto ad intuire che questa strada diventerà molto meno trafficata, come del resto accade già oggi, ma non sarà vietata alle auto. Ne discuteremo magari un’altra volta.
Questa non è la proposta di un idealista distaccato dalla realtà, ma del progetto dei “4 Assi” del Comune di Genova che prevede corsie riservate per bus nell’attuale sedime stradale in sponda destra; proposta suffragata da analisi con simulatore. Tra l’altro, nello stesso progetto viene riportato che il tram sarebbe preferibile al filobus previsto, perché ha un migliore inserimento nei contesti urbani. Il tram è anche meno ingombrante di un bus, ancora più adatto ad insinuarsi nelle strade più strette lasciando spazio ai marciapiedi.
Rinaldo Mazzoni
Il verde a Genova: una chimera
Parlare di verde a Genova è come parlare di un fantasma: non c’è e se c’è non so dov’è. La triste realtà con cui dobbiamo misurarci da decenni; non solo con l’attuale amministrazione.
Eppure il verde è tutelato da ben due articoli della Costituzione – 9 e 41 – che dettano anche i limiti dell’agire dei nel contesto della libertà di impresa e delle garanzie per la salute.
Bisogna aggiungere che le più alte istruzioni mondiali e locali che si occupano di salute, ci dicono da tempo che a una diminuzione del verde corrisponde un aumento delle patologie. Parliamo di 100 morti all’ anno a Genova e un numero di malati spropositati, al solito a carico delle famiglie e dei servizi pubblici.
Ma a Genova non c’è nessun archivio del verde, né pubblico né privato. Un’idea che non è mai venuta in mente a nessun assessore; mentre il saldo “alberi tagliati alberi ripiantati” è in passivo (con in più usano il giochetto di tagliare alberi alti venti metri e ripiantare alberi piccoli, in barba al regolamento del verde pubblico). Ovviamente, oltre a fottersene di leggi e regolamenti, usano il trucco di tagliare alberi in somma urgenza. Per farlo dovrebbero produrre la relazione di un agrotecnico sul pericolo di caduta improvvisa, che si guardano bene dal farlo. Dopo mesi che quell’ albero pericoloso sta lì senza che venga segnalato alcun pericolo, improvvisamente aprono il cantiere e partono le seghe. Perché gli alberi non si sa quanti sono e di quale specie (non c’è una anagrafe del verde); ovviamente non c’è neanche alcuna cura possibile. Tanto per loro gli alberi sono tutti vecchi e malati perché vivono in città e la colpa è sempre dell’amministrazione precedente che ha piantato alberi sbagliati, in siti sbagliati e non li ha curati. Magari innaffiarli nelle estati torride o impedire che si taglino radici emergenti dall’ asfalto. Purtroppo questa pratica dissennata è largamente in uso e le piante curate dai nostri tutori del verde stanno morendo o sono già stecchite. E i tutori della legge? Nemmeno una troupe di “Chi l’ha visto” riuscirebbe a scovarli. La costituzione? Cos’è? I morti accertati? E chi li conosce: ci mandino una PEC e vedremo. Se danno notizie di reato, valuteremo. Così la magistratura penale, quella contabile, le Asl, l’Arpal, il nucleo ambientale dei carabinieri (quello dei vigili che funzionava ma era troppo autonomo l’hanno abolito), i carabinieri forestali, hanno altro da fare. Però se protesti magari ti denunciano. Come mi è capitato il mese scorso.
Andrea Agostini
POLITICA E ISTITUZIONI
Lo stato dell’arte delle regole e delle pratiche pubbliche
Per gentile concessione di Piazza Levante pubblichiamo ampi stralci dell’articolo di Tonino Gozzi, apparso il 28 marzo scorso, di cui apprezziamo l’intento di promuovere il dibattito sul modello competitivo territoriale, dopo la (insensata) liquidazione di quello novecentesco fondato sulla grande industria partecipata dallo Stato. E dopo decenni di chiacchiere inconcludenti sulle uscite di sicurezza rappresentate da ascese a fantomatiche capitali di qualcosa; e l’imbarazzante tendere delle attuali amministrazioni a soluzioni “tipo Billionaire” come mercificazione del territorio. Unico distinguo rispetto al testo di Gozzi riguarda i toni blandi nei confronti dell’isolazionismo IIT, quando la ricerca d’area (soprattutto se lautamente finanziata dal pubblico) imporrebbe un ruolo di indirizzo/controllo della politica.
L’industria è centrale anche a Genova e in Liguria
Tradizione e cultura industriale sono indispensabili a un futuro per la nostra comunità.
Le città e le regioni più avanzate del mondo vivono di un mix diversificato di attività in cui conoscenza e innovazione sono gli ingredienti fondamentali. Le imprese industriali da sempre sono le principali protagoniste di tale accumulo.
Per secoli Genova e la Liguria, hanno visto convivere attività mercantili e marittime, finanziarie, assicurative con solidi insediamenti industriali radicati nel tessuto economico e sociale nonostante la ristrettezza degli spazi fisici a disposizione.
Nel secondo dopoguerra le grandi aziende industriali genovesi e liguri sono state soprattutto pubbliche a partecipazione statale. Queste imprese hanno rappresentato non solo un fondamentale presidio economico e sociale e un traino per la subfornitura, ma anche un concentrato di conoscenza e saperi industriali; naturale sbocco occupazionale per le giovani generazioni.
La fase terminale del sistema delle Partecipazioni Statali ha offuscato il valore di quella presenza e di quella cultura che aveva avuto invece momenti di grande modernità e innovazione. Cultura industriale e del lavoro che ha permeato anche la classe operaia genovese e ligure, cresciuta in una dimensione favorevole agli investimenti e allo sviluppo. Costruire oggi un riscatto di Genova e della Liguria significa innanzitutto sconfiggere il luogo comune che l’industria è il passato.
Oggi vi sono iniziative e opportunità che lanciano le imprese liguri su alcuni dei più importanti vettori di innovazione: cyber security, in una logica di sicurezza che ingloba anche la difesa, big data e intelligenza artificiale, e tecnologie del subacqueo con il Centro di La Spezia. Ambiti presidiati da due delle più importanti aziende italiane, Leonardo e Fincantieri. Poi vi sarebbe l’opportunità di pensare Genova e la Liguria capitali delle tecnologie per la transizione energetica. Vi sono infatti molte aziende che operano in questi settori con significativi investimenti e masse critiche. Università e IIT rappresentano in questo contesto importantissimi luoghi di conoscenza teorica e applicata. Bisogna migliorare la connessione tra loro e le imprese. In particolare si ha talvolta la sensazione che l’IIT, con i suoi oltre 1000 ricercatori di cui metà stranieri, sia ancora un’astronave atterrata sulle colline di Morego il cui equipaggio non è ancora sceso in città.
Antonio Gozzi
SPAZIO E PORTI
Traffici e infrastrutture nella prima industria ligure
Un profilo a due stadi di Gianluigi Aponte,
l’imprenditore salernitano di stanza a Ginevra, che ormai è il padrone assoluto del porto di Genova (in partnership con Aldo Spinelli) e che si appresta a munirsi con il Secolo XIX di uno strumento per mantenere la presa sul ceto politico locale e indottrinare la pubblica opinione.
Genova o Geneva?
Se Aponte pretendesse di cambiare il nome del porto da Genova a Geneva, temiamo che i politici, le istituzioni e gli operatori portuali accetterebbero di buon grado, visto che sinora sono sempre stati proni di fronte alla “resistibile ascesa” di MSC.
Sono trascorsi 20 anni da quando l’Autorità portuale di Genova, presidente Novi, prese atto dell’intesa tra Aponte, Aldo Grimaldi e Negri per la gestione di Calata Bettolo; una volta tombata per diventare un moderno terminal full container. MSC, insediata a Ginevra, condotta dall’outsider sorrentino Aponte, era stata convinta a rinunciare al Multipurpose di cui aveva vinto la gara, lasciando a bocca asciutta le famiglie genovesi che reggevano il porto e che mal sopportavano l’intrusione di MSC: i Messina oltre ai Clerici, gli Scerni, i Musso, gli Spinelli, i Grimaldi, alle cui liti fu restituito il terminal. Allora funzionava così, salvo i processi penali che ne derivarono per turbativa d’asta e abuso d’ufficio, che portarono all’arresto anche di Novi. Peraltro assolto.
Aponte aveva fatto il bel gesto dimostrando lungimiranza; mentre i genovesi restavano a litigarsi le rendite del giorno per giorno tra Ponte Ronco e Ponte Etiopia in barba ai loro piani di impresa (solo il Gruppo Messina, grazie al Multipurpose, prometteva 442.000 teu e 185.000 metri lineari all’anno; nel 2023 ha movimentato 130mila teu e 146mila mtl). Nel 2006 Aldo Grimaldi lasciò la società per Bettolo. SECH (Negri ecc.) e MSC si consorziarono in attesa della consegna del terminal previsto nel 2014: lo sarà nel 2020. Ma a quel punto SECH ruppe con MSC e si accasò con PSA. Nel frattempo Spinelli aveva fatto società con MSC per gestire il Terminal Rinfuse. A entrambi interessava occupare lo spazio tra le rispettive concessioni di Bettolo e Ponte Etiopia in attesa di formare una banchina in linea per i container. Intanto, si chiariva che Bettolo non era in grado di ormeggiare le grandi portacontenitori, se non a costo di bloccare l’ingresso al porto di Sampierdarena. Dopo il danno (anche per la spesa pubblica, di oltre 250mlo), la beffa: Aponte aveva rinunciato al Multipurpose a causa degli stretti accosti a pettine in favore della banchina lineare e funzionale di Bettolo; ora che finalmente dopo 20 anni gli veniva consegnata, si scopriva che era inutilizzabile per i suoi traffici. Chi lo spiegava al re di denari? Toti, Bucci, Signorini dovettero volare a Ginevra-Canossa promettendo di rimediare con la nuova diga foranea da oltre 1,3 mld.
R.D.I.
L’incoronazione di Gianluigi Aponte a signore del porto di Genova
Inizialmente Aponte non era il benvenuto tra i colleghi genovesi. Ma da allora MSC a Genova non è restata con le mani in mano. Oltre alla società con Spinelli per il Terminal Rinfuse, Aponte ha comprato GNV, preso il controllo delle Stazioni Marittime, stabilito l’home port di MSC Crociere, costruito le torri MSC a San Benigno, comprato i Rimorchiatori riuniti, è entrato al 49% nel Gruppo Messina salvandolo dai debiti (ripensando all’opposizione di Messina ai tempi del Multipurpose, una particolare soddisfazione per Aponte!), salvato dal fallimento il Gruppo Onorato (Tirrenia, Moby ecc. altra soddisfazione speciale), consolidato la provveditoria delle navi da crociera a Manesseno, acquisita metà delle azioni del retroporto di Rivalta Scrivia (invenzione dei genovesi), fatto un accordo con RFI per il parco ferroviario di Alessandria (di cui le istituzioni genovesi parlavano già 30 anni fa, ma senza combinare nulla). Sotto il profilo dei traffici nel porto, oggi le navi MSC costituiscono il 20% delle portacontenitori, il 40% dei traghetti e il 75% delle crociere. Se poi aggiungiamo Moby e Tirrenia, di cui Aponte possiede il 49% e di fatto il controllo, tutti i traffici traghetti, a parte il Gruppo Grimaldi e Cotunav, sono MSC. Inoltre, possiede la principale agenzia marittima genovese (Le Navi) e ha eletto Genova a sede di Medlog e Medway per il trasporto delle merci su gomma e su ferro. Prima le istituzioni hanno permesso che la comunità portuale facesse guerra al foresto MSC, poi hanno assistito imbelli alla sua resa e alla consegna del porto allo strapotere finanziario e commerciale di Aponte. Ora MSC ha in corso l’acquisto di quote dell’aeroporto, oltre a quello del quotidiano Il Secolo XIX. Perfino lo Stato italiano sta correndo ai ripari con la nuova diga miliardaria per dare finalmente a MSC, dopo lunga attesa, un posto al sole nel maggiore porto italiano. L’autorità di sistema portuale e la città sono impegnate pancia a terra a non deludere ancora una volta Aponte divenuto uno tra i principali oligarchi del trasporto marittimo e della logistica internazionale. In quanto – come lui stesso ama dire – “chi controlla i volumi di merce trasportati via mare, può decidere il destino dei porti in cui sceglie o meno di approdare”. Sebbene non competa ad Aponte stabilire quanto convenga al porto, alla città e al territorio una tale abnorme dipendenza. Dovrebbe deciderlo il dibattito pubblico sul porto di Genova. Mai indetto.
Riccardo Degl’Innocenti
SALUTE E SANITÀ
La prima tutela in una regione che invecchia
Solo Toti rifiuta di partecipare all’iniziativa dei presidenti di Regione a difesa del Sistema Sanitario Nazionale
Sanità ligure: i conti non tornano
I conti della sanità ligure proprio non tornano. La Regione ha deciso di affidare a una società specializzata, la KPMG ADVISOR, la revisione dei conti, chiusi nel 2023 con un deficit di oltre 140 milioni di Euro. La cosa incredibile è che l’amministrazione presieduta dal “massese in prestito” Toti aveva creato una struttura costosa, destinata proprio al controllo delle ASL. Forse uno dei primi costi da eleminare è proprio la superflua e inutile esistenza di ALISA. Nel frattempo Alisa ha già deliberato un primo contributo alla nuova società di controllo per 450.000 euro. Altri soldi, che non servono per cure e servizi ai cittadini. Tutto questo accade mentre 14 grandi scienziati di fama internazionale del campo medicale insieme al premio Nobel Parisi lanciano un allarme sul futuro della sanità pubblica italiana. L’Italia dedica appena il 9,1% del proprio PIL alla spesa sanitaria, ben al di sotto della media europea che è del 10,9%, e distantissima da paesi come Francia, Germania, Svezia e altri. La spesa sanitaria italiana è meno della metà di quella della Francia. Le regioni hanno protestato, minacciando il ricorso alla Corte Costituzionale, contro i tagli alla sanità del governo Meloni. Colpiscono le assenze tra gli scienziati di personaggi usciti dall’IIT e l’assenza della Liguria dal coro delle regioni. Si sa che Toti deve ottenere la candidatura per il terzo mandato e non può disturbare la Meloni.
Un fenomeno che colpisce tutta la regione è quello della fuga dei pazienti verso regioni vicine. In particolare dall’ASL 5 dello spezzino, la più disastrata e maltrattata delle ASL liguri, che vede i pazienti costretti a “fuggire” soprattutto in Toscana per cercare prestazioni che a Spezia non vengono fornite.
Questa ASL su un misero bilancio di 53 milioni di euro di prestazioni sanitarie dovrà versarne bel 30 milioni e 810 mila euro a ASL di altre regioni, 13 milioni ad altre ASL liguri e 8 milioni a strutture private.
Uno dei primi risparmi potrebbe proprio quello di dotare la sanità locale di medici, infermieri, strutture e servizi, evitando disagi ai cittadini, costretti a “emigrare” o a regalare soldi a strutture private.
Nicola Caprioni
FATTI E MISFATTI
Affarismi (o peggio) e miserie del potere, locale e non
Pubblichiamo il grido di dolore di Marina, sgomenta davanti all’ennesima mercificazioe del messaggio religioso
L’ultimo tradimento della fede, a Sturla
Il primo miracolo di Cristo trasforma l’acqua in vino per godersi una festa. Le sue più care amiche erano donne, Marta, Maddalena (una prostituta). Nasce così il cuore del cristianesimo, dal godere il dono della vita portando le donne in palmo di mano. Tolleranza (chi è senza peccato), gioia, distacco dai beni materiali, non interferenza nelle questioni temporali (date a Cesare quel che è di Cesare) Il feroce Jahvè del monoteismo ebraico diventa il Dio Padre misericordioso che tutto perdona ai suoi figli. Pochi secoli dopo Dio si fa impietoso, impone cilicio, castità, donne declassate a ranghi sottomessi, bruciate come streghe, intere popolazioni sterminate e depredate. Nel suo nome. L’Istituzione Cattolica eretta a cupola di potere e denaro, feroce coi fedeli e assassina con gli infedeli. L’architettura delle chiese gotiche scompensa il malcapitato fruitore suggerendo due direzioni spaziali irraggiungibili: orizzontale verso un altare lontanissimo, verticale verso un Dio inarrivabile. A seguire, l’umanizzazione geometrica rinascimentale nasconde Dio nei parametri della ragione e il fasto creativo barocco sancisce il potere dei Papi sullo spirito. Nulla a che vedere col rivoluzionario messaggio cristiano, ma perlomeno meravigliose opere d’arte, nella Chiesa governata dall’aristocrazia colta. Il progressivo allontanamento dalla religione oggi impone un Mktg esteso alle classi più povere, coltivate da solerti missionari; la Chiesa, incapace di operare un innalzamento spirituale (in quanto da sempre ne è poco interessata) si abbassa al minimo livello con sconti da supermercato. Lo stridente suono delle chitarre, incompatibili con le navate, e gli orridi tralallero dei boy scout hanno fatto piazza pulita dell’organo e di Bach. La nuova icona di Cristo è un biondone riccioluto con occhi azzurri rimmel e cuore in mano. Dulcis in fundo, l’ultima proposta (agghiacciante, seppur solo provocatoria) di rilevare la discoteca Vanilla per farne una Cristoteca. Il mio sdegno risuona come salmi al confronto. Io sono laica, illuminista e ambigua. Ho naturale propensione alla fede, che mi commuove e appartiene proprio nell’accezione evangelica: un seme che non necessita di grandezza, ma di potenza. Non trionfale ma esplosiva: genera frutti. Ho bisogno di questa “volontaria sospensione dell’incredulità” (Coleridge). Ma fermamente credo che non esista altro modo per riportare i fedeli alla Chiesa, se non aiutarli ad elevarsi a Dio. Anziché abbassare Dio alla loro ignoranza.
Marina Montolivo Poletti
Se Gesù avesse incontrato certi mercanti genovesi dello snack…
Odio quando leggo che in certo ristorante è stato trovato un topo; con intervento dei NAS e tanto di multa. Odio quando viene scritto “un certo ristorante”: io voglio sapere quale. Che il giornalista o il giornale piuttosto abbiano paura di ritorsioni è ridicolo. Così qualche giorno fa in via XX Settembre tre piccoli coni gelati sono costati 27 euro. Ma non si fa il nome del locale. Perché? Non c’è ragione giuridica per non farlo, anzi, sarebbe bene per cittadini e turisti magari leggere prima i prezzi. Se poi fossero diversi da quelli effettivamente da pagare, si chiama la Guardia di Finanza. Il mugugno non serve a nulla, e aiuta i furbetti. Così faccio mea culpa, ma ex post mi comporto diversamente da Genova Today, dove ho letto la notizia. Via XX Settembre a Genova, 12-14-16 rosso, verso Piazza Brignole di fronte alla Mondadori. Non dico il nome perché non lo ricordo e sullo scontrino che conservo c’è solo quello della società, diverso dall’insegna. Una pasticceria-caffè. Poco dopo mezzogiorno chiedo un cappuccino con un pezzo di focaccia: non hanno la focaccia e allora rimedio su due semplici canestrelli. Consumo al banco: totale otto euro, di cui tre per il cappuccino e cinque per i due biscotti. Dopo aver imprecato dentro di me per non aver controllato i prezzi, pago indifferente. Spero sia chiara l’identificazione del negozio. Tanto per fare dei paragoni, al bar Coq Noir di Corso Firenze 73 gli ottimi canestrelli di loro produzione costano (anche se si va a peso) circa cinquanta centesimi l’uno. Ora mi identifico nei turisti che vengono qui da noi: ventisette euro per tre gelatini e otto euro per una colazione frugale. Ma c’è di peggio, secondo me: domenica sette aprile cerco un ristorante in centro, zona Mercato Centrale, Via San Vincenzo e dintorni. Non ce n’è uno aperto. Eppure, è zona turistica, molti negozi lavorano. Cerca e ricerca alla fine ne trovo uno alla Foce, che non conoscevo: La Locanda Antichi Sapori. Un mix eccellente di cucina ligure e toscana. Opto per quest’ultima e mi gusto dei crostini di fegatini e dei pici all’aglione che mi sembra d’essere nella campagna senese, da quanto sono buoni. E sono gentili al punto che, non potendo ospitare una famigliola di turisti (è tutto pieno), il titolare li manda da un concorrente poco lontano. Si dice dare un colpo al cerchio e uno alla botte: facciamolo. Pure Gesù ha preso a calci i mercanti nel Tempio. Ricordiamocelo: niente mugugno e calci nel sedere.
Carlo A. Martigli
UNO SGUARDO DA LEVANTE
Cosa bolle in pentola nell’Est ligure? Testimonianze
“Basi blu”, nome suggestivo, pericolo incombente
Nel 2022 il ministero della difesa ha presentato il progetto dal nome romantico “basi blu” destinato all’ammodernamento e all’adeguamento ai nuovi standard NATO delle basi navali della Marina Militare Italiana.
Un vasto movimento popolare si è subito mobilitato, con iniziative pubbliche che culmineranno nella manifestazione alle ore 17,00 del 13 aprile alla Spezia.
Ma cosa prevede il progetto “basi blu”, quali benefici e quali rischi può creare alla popolazione? Il progetto è un pericolo per tutto il golfo; in particolare per i tre comuni che vi affacciano (La Spezia, Lerici e Portovenere). Non porta nessun beneficio occupazionale e neppure di recupero del patrimonio straordinario di professionalità, già vanto della manodopera dell’arsenale spezzino. È prevista la realizzazione di tre nuovi moli (Varicella 2, 3 e 4) e l’ampliamento di uno esistente (Varicella 1) con enormi dragaggi e movimentazione di terre probabilmente inquinate e il tombamento di specchi d’acqua. Questi moli garantiranno l’approdo di ben 14 unità navali anche ad alto pescaggio. Con emissioni inquinanti dei fumi delle navi, inquinamento elettromagnetico dei radar e inquinamento marino. Sono previsti dragaggi sino a 12 metri di profondità con la presenza di fanghi inquinanti, possibili residuati bellici (La Spezia fu la terza città in Italia per volume di bombardamenti aerei); sul golfo di Spezia grava la presenza della “collina dei veleni” di Pitelli, con possibili sversamenti di liquami inquinanti nei fanghi subacquei.
Non è invece prevista la bonifica della darsena e la liberazione del famigerato “campo in ferro”, dove da molti anni la Marina ha accumulato ogni sorta di rifiuti, vicino ai borghi di Marola e Cadimare, definite “pericolose” dalla Magistratura.
È prevista la riattivazione dei vecchi serbatoi sotterranei di carburante, da molti anni in disuso e contenenti ben 20mila metri cubi di carburante; sotto la strada napoleonica, unica via di collegamento tra La Spezia, Portovenere e la costa di ponente del golfo. Basi blu sarà un enorme cantiere per 9 anni, costerà ben 364 milioni di euro (solo alla Spezia) senza alcuna ricaduta occupazionale, ma con milioni di tonnellate di fanghi che verranno in parte riutilizzati nei moli e in parte avviati in discarica.
Un più modesto dragaggio, effettuato anni fa nel porto mercantile, aveva creato seri problemi d’inquinamento marino e la moria dei muscoli (ovvero cozze), costringendo i poveri muscolai a spostare i loro pregiati allevamenti.
N.C.
Arsenale della Spezia. Quale futuro?
L’Arsenale della Spezia è alla base dell’esistenza stessa della città. Infatti fu grazie alla realizzazione del grandioso arsenale militare, inaugurato nel 1862, che la città passò dai circa 3.000 abitanti ai centomila di fine secolo. Intorno all’arsenale sorsero i grandi stabilimento industriali, fu realizzato il primo progetto di edilizia popolare in Italia, nacque la città moderna. Tale fu il flusso di lavoratori da ogni parte d’Italia da incidere sui costumi e il linguaggio della città, fortemente differenti dal resto della provincia.
Oggi, in arsenale non si costruiscono più le grandi corazzate del passato. Non ci sono più i 10.000 operai di un tempo. I dipendenti sono circa 800, 500 dei quali prossimi alla pensione. I lavori vengono sempre più appaltati e subappaltati a ditte esterne.
Il ministro della difesa Crosetto, in una sua visita alla Spezia ha parlato del progetto basi blu e di ingenti investimenti per l’ammodernamento del vecchio arsenale. Il problema è che non c’è chiarezza sull’importo, la finalità e destinazione. I sindacati dei lavoratori CGIL, CISL e UIL l’hanno espressa chiaramente con una loro presa di posizione. Il timore che si dequalifichi sempre di più il lavoro, che i dipendenti prossimi alla pensione non siano rimpiazzati e si finisca per consegnare tutti i lavori nelle mani dei privati. Il ministero ha parlato di 9.000 unità di personale civile negli stabilimenti della marina militare. Attualmente sono 4.000. Ne mancano 5.000. Di questi quanti destinati alla Spezia? E per gli investimenti il ministro ha fatto capire che potranno esserci apporti privati. I sindacati hanno ribadito che il controllo deve rimanere pubblico.
In passato l’arsenale militare spezzino è stata una vera fucina di operai specializzati. Le scuole operai interne sfornavano i migliori tornitori, falegnami, fresatori e tantissime altre specializzazioni, delle quali spesso si è avvantaggiata l’industria locale. Oggi questo non esiste più. In compenso l’arsenale e le aree militari occupano spazi immensi e di grande pregio, oggi in stato di semi abbandono.
O c’è la volontà da parte del governo di intervenire e rilanciare l’occupazione in Arsenale, o si pone automaticamente il problema della cessione di aree militari alla società civile. Nel frattempo i sindacati hanno chiesto spiegazioni al ministro Crosetto, ma a Roma tutto tace.
Nicola Caprioni
UNO SGUARDO DA PONENTE
Cosa bolle in pentola nell’Ovest ligure? Testimonianze
Savone pays du Roi – all’origine della rivalità con Genova (2)
Riprendendo il tema dello storico antagonismo tra le due realtà urbane al centro della Liguria, si potrebbe ipotizzarne la causa nella loro vicinanza – una cinquantina di chilometri – che tende a produrre “conflitti di prossimità”; acuiti dal fatto che le vocazioni economiche di entrambe sono praticamente sovrapponibili (dunque concorrenziali), tanto da spingere il soggetto che dispone di minori risorse competitive – appunto, Savona – a ricercare differenziazioni identitarie che oltrepassino un distanziamento spaziale pericolosamente esiguo. Fin dalla notte dei tempi. Dopo la comune origine dei rispettivi insediamenti risalenti al neolitico (5.000 a.C.); nell’ondata di popolamento delle Riviere, dal Sassellese a Campomorone, seguendo le rotte dell’irradiamento agricolo che dal medio Danubio arriva alla penisola iberica attraverso l’Italia settentrionale.
Il primo dato certo – relativo alla storia antagonistica di cui parliamo – risale alla seconda guerra punica (dal 218 a.C. al 202) quando troviamo le due città schierate in campi avversi: Genova con i romani e Savona con Cartagine. Fischio d’inizio della rivalità che ritroveremo nelle vicende successive? E proprio dalla scelta di campo savonese deriverebbe il suo toponimo, attribuito da un’accreditata teoria al cartaginese Sago o Sagone, il comandante che riedificò la città dopo che questa era stata distrutta dai romani. Così – citata per la prima volta da Tito Livio come alleata dei punici – Savona entra esplicitamente nella storia: nata verso il V secolo a.C. come insediamento dei Liguri Sabati, probabilmente sulla collina del Priamar. Più o meno contemporaneamente alla fondazione di Genova sul colle di Sarzano, sopra il golfo del Mandraccio, da parte dei Liguri Genuates.
Poco conosciamo delle genti liguri, di cui appaiono tracce dal primo millennio a.C. Sappiamo solo che si tratta di popolazioni precedenti all’arrivo dei cosiddetti indoeuropei, presenti su un’area sterminata: oltre la Liguria storica, la Gallia, la penisola iberica e parte del settentrione padano fino alla Svizzera. Irradiamento che scorgiamo nella toponomastica: nomi come Entella, Segesta o Eryx compaiono in Liguria e in Sicilia; il suffisso aska/asko (Borzonasca, Carasco) rilevato dal Piemonte alla Provenza. Indizio di un’antica unità linguistica, in contrasto con l’organizzazione ancora pre-statuale di gruppi tribali senza comune spirito d’appartenenza.
Nel 207 i Sabati alleati con Magone, fratello di Annibale, devastano Genova.
Pierfranco Pellizzetti (segue)
GENOVA MADRE MATRIGNA
Al centro di una regione centrifuga
Genova e i tessitori del Levante. Opulenza e miseria.
La città capoluogo vantò per secoli il primato economico nella produzione e commercio di prodotti tessili d’eccellenza che le assicurerà enormi ricchezze. L’Arte della Seta era una corporazione controllata dall’aristocrazia genovese; tanto potente da vantare un “magistrato” che giudicava i fornitori di manodopera, fino all’applicazione della pena capitale. A scapito della Riviera di Levante, fornitrice della manodopera necessaria quanto esclusa dai ricavi realizzati.
Il mercato del tempo era un labirinto monopolistico: il committente forniva agli assegnatari i prodotti da trasformare, talvolta semilavorati, poi riportati a Genova per essere immessi nel ricchissimo business del tempo. Un rigido meccanismo sciolto del laccio delle corporazioni dai provvedimenti della Repubblica Democratica Ligure: la cultura napoleonica rifiutava questi metodi e liberalizzò il mercato. Ne conseguì una grave crisi dovuta al fatto che i tessitori levantini erano soltanto prestatori d’opera, completamente esclusi dal rapporto col mercato. Questa non fu l’unico colpo inferto a questa fiorente manifattura, con momenti di flessione che porteranno migliaia di addetti ad accettare paghe da fame. In un documento dell’Archivio di Stato genovese si legge: “per paga robba mangiativa o cose simili”. Tale modalità di pagamento alimentare era applicata ai tessili residenti a Genova grazie alla disponibilità di telai nella Riviera di Levante disponibili a subire qualsivoglia imposizione genovese. Un’area contadina poverissima, con proprietà polverizzate e inadatte alla produzione agricola. Dove vigeva un’economia di sussistenza, in cui il prodotto agricolo sfamava a malapena e il ricavato dal lavoro dei telai sussidiava a malapena la penuria. Sempre dell’Archivio di Stato: “i tessitori di riviera habitano in paesi ove il vivere è a buon mercato e di piccolo stipendio, facilmente governano le loro famiglie e perciò puono lavorare a prezzi più leggieri di quelli dei tessitori di città”. La relazione di un sacerdote in visita a Chiavari nel 1677, ne dà conferma: “il sostentamento è il raccolto delle castagne e tessitori di panni di seta, e così sono tutti gli abitanti di queste valli”. L’abbattimento dei costi porterà al definitivo trasferimento dei telai a Levante. Un censimento del 1675 riferisce che su 2.564 telai attivi, ben 2.064 erano nel chiavarese. Anche la fabbrica di velluti e sete genovesi racconta l’itinerario univoco della ricchezza: i soldi a Genova e lo sfruttamento in Riviera.
Getto Viarengo
PASSEGGIATE D’ARTE
Le bellezze dimenticate da riscoprire
Suggestioni di Liguria: Barnaba da Modena tra Genova e La Spezia
In quello scrigno di bellezza che non finisce mai di stupire che è il Museo Civico Amedeo Lia di La Spezia, tra i tanti capolavori non passa inosservata questa strepitosa Crocifissione, opera di Barnaba da Modena del 1370. Con un sapiente uso del colore, l’effetto di commovente drammaticità, il quadro appare nettamente diviso in due parti: sopra, Gesù che si staglia sul fondo oro e sotto, nella metà bassa, i personaggi che assistono alla scena, distinti tra i “buoni” (le pie donne che soccorrono la Madonna svenuta, la Maddalena che si getta ai piedi della croce) e i “cattivi” (i soldati che giocano a dadi e quelli che, lance alla mano, mantengono l’ordine). A cavallo (particolare piuttosto insolito) sopraggiunge invece Ponzio Pilato, che con la mano destra indica Gesù. Poco si sa della vita di Barnaba da Modena, sicuramente lavorò in Liguria, in Piemonte e a Pisa a metà del XIV secolo, si formò nell’ambiente della pittura emiliana, con una forte influenza di Vitale da Bologna. Le fonti lo citano a Genova nel 1361, dove presumibilmente tre anni dopo fu impegnato negli affreschi della cappella del Palazzo Ducale. Dopo un periodo in Piemonte fu poi a Pisa nella Fabbrica del Duomo per la decorazione del Camposanto e qui sono conservate due Madonne, il Giudizio finale è conservato in S. Agostino a Genova, mentre altre opere si trovano alla National Gallery di Londra.
Il suo gusto pittorico, che deriva proprio dalla scuola emiliana, subì influenze di tipo bizantineggiante e qualche spunto gotico che lo rendono prossimo alla scuola senese.
Nella Chiesa di San Donato a Genova sono conservate due Madonne fondo oro, una di Nicolò da Voltri e una “del Latte” proprio di Barnaba da Modena. In particolare questo quadro ha una sorta di “copia” pressoché uguale al Louvre, medesimo è il gioco affettuoso di mani, identico lo sguardo rivolto al visitatore, con addirittura ancora la punzonatura del fondo oro, persa invece nell’esemplare genovese. La Madonna che allatta è una immagine ricorrente spesso nelle opere del periodo gotico, poi con il passare del tempo le rappresentazioni abbandonano l’aspetto “astratto” per divenire più realistiche e vivaci, in una progressiva umanizzazione della Mamma con il suo Bambino.
Orietta Sammarruco