Numero 28 del 2 settembre 2024

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Numero 28, 1 settembre 2024

SPIFFERI

C:\Users\HP\AppData\Local\Packages\Microsoft.Windows.Photos_8wekyb3d8bbwe\TempState\ShareServiceTempFolder\chichibio.jpeg Toti alla Boccaccio

Scampoli del Totigate: le argomentazioni alla Chichibio

L’aspetto più sorprendente nella vicenda è la strategia adottata dall’ex Presidente ligure che ti guarda con gli occhioni smarriti: “ma di che mi si accusa?”. “Di corruzione, anche se sarebbe più corretto parlare di concussione”. “Ma sono reati scivolosi da definire: aiutare un’impresa è merito politico o asservimento della funzione?”. Insomma, spillare denaro a fronte di favori è un comportamento sperso nell’ineffabile (qualcosa che non si può definire a parole) da Paradiso dantesco? I casi sono due: o a Toti hanno lavato il cervello in Mediaset sulla sacralità della politica che la rende insindacabile a prescindere, oppure è il solito furbone toscano alla Chichibio, cuoco pronto a sostenere che le gru hanno una coscia sola per non ammettere di essersi pappata l’altra con la sua bella.

Scampoli del Totigate: campionissimo, nonostante tutto

Giovanni Toti ha davvero dimostrato di essere un campione: la forza d’animo, la capacità di soffrire e di andare avanti. Quando ha perso, come tutti noi abbiamo potuto vedere, sia che ce lo avessimo simpatico, sia che lo detestassimo (anche se non si capisce per quale motivo), non abbiamo potuto fare a meno di ammirarlo per la sua dignità, per la soddisfazione comunque di aver dato tanto all’Italia. Un giorno spero di potergli stringere la mano e farmi anche insegnare le sue migliori battute, quelle che disorientano l’avversario. Un vero combattente, in un’arena dove non conta chi partecipa ma chi vince. Scanso equivoci si precisa che il Giovanni Toti in oggetto è il campione di badminton che ha tenuto alti i colori italiani alle Olimpiadi, non quello uscito dai domiciliari.

Scampoli del Totigate: il ritorno del Padrino

Avevano persino tirato in ballo la demenza senile per scagionare Aldo Spinelli, decano della mazzetta genovese. Ma quello procede imperterrito, fiducioso nel potere smacchiante dei quattrini. In piena bagarre giudiziaria ingaggia un già Consiglio Superiore della Magistratura (David Ermini) per intimidire il commissario dell’Autorità Portuale anch’esso ex CSM (Alberto Maria Benedetti). In perfetto stile Padrino II, quando si fa venire un fratello dalla Sicilia per indurre a tacere un affiliato della cosca pentito, in procinto di spiattellare contro la Famiglia nell’udienza indetta dalla Commissione d’Inchiesta senatoriale. Come disse Don Vito: Gli amici tieniteli stretti, ma i nemici anche di più. E magari Don Aldo anche stavolta riesce a passarla pure lui liscia, come Michael Corleone.

C’È POSTA PER NOI

Nel corso del mese di agosto, esponenti dell’opposizione sociale (movimenti, circoli, associazioni) da anni in campo contro le politiche promosse dalla vigente maggioranza di governo in Regione Liguria, hanno discusso le imminenti scadenze amministrative post Totigate, mettendo a punto un documento-decalogo sulle linee guida per un effettivo rinnovamento della vita pubblica ligure. A partire dal principio che questo tema (dagli organigrammi ai programmi) non può essere deciso – come spesso in passato – in ristrette conventicole, ma deve diventare dibattito ampio e partecipato. Democraticamente:

L’OPPOSIZIONE SOCIALE ligure in questi anni è sempre scesa in campo a difesa di sanità, ambiente, lavoro, energia e tutti i beni comuni che costituiscono il patrimonio irrinunciabile della vita civile, sotto minaccia per la loro mercificazione da parte di forze politiche devastatrici.

OGGI È CONSAPEVOLE

che il deficit di legalità fatto emergere dalle indagini della magistratura, con il conseguente terremoto nelle istituzioni locali e il futuro ricorso a elezioni anticipate, rende possibile e opportuno perseguire un profondo cambiamento nelle logiche di governo e il ricambio del personale politico.

NELL’EVIDENZA

che il clamoroso malcostume emerso dipende direttamente da una lunga dissipazione della civica democrazia, in cui destra al governo e opposizione politica hanno perseguito sinergie nelle ricorrenti pratiche di scambio. Esito perverso da contrastare a tre livelli: valoriale, metodologico, operativo.

PRINCIPI/VALORI


  1. Crediamo nello Stato Sociale principio fondativo della giustizia e della sicurezza sociale, volto a proteggere da povertà, umiliazione e sfruttamento per l’inclusione degli ultimi;

  2. Denunciamo le derive affaristiche bipartisan – per prima la svendita della sanità pubblica – con la fatale continuità tra la politica della giunta Burlando da quella Toti;

  3. Propugniamo la legalità, “potere dei senza potere”, e l’indipendenza della magistratura contro ogni tentativo di sottoporla al controllo dell’esecutivo (separazione delle carriere);

  4. Respingiamo la confusione dei ruoli di partito, creata attraverso le pratiche consociative e le campagne acquisto di esponenti dell’altro schieramento;

METODI/PROCEDURE


  1. La rifondazione della democrazia dei liguri impone l’adozione di procedure deliberative che cancellino l’abituale ricorso decisionale a chiuse conventicole che operano nella segretezza;

  2. La definizione delle priorità programmatiche delle nostre comunità richiedono l’adozione dei metodi di pianificazione strategica di territorio già adottate dalle 50 Eurocities;

OBIETTIVI/PRIORITÀ


  1. Il diritto alla salute va tutelato attraverso il potenziamento del braccio pubblico che affronti il suo primo punto di debolezza: l’ininterrotta anemizzazione indotta dal de-finanziamento;

  2. Il lavoro va promosso con politiche industriali a base regionale che affrontino il tema rimosso del modello di sviluppo ligure, dopo il crollo di quello basato sulle Partecipazioni Statali;

  3. Le politiche ambientali, liberate dagli “amici degli amici”, devono valorizzare il ruolo della partecipazione civica di controllo, come nell’esperienza delle “Sentinelle” dei fumi in porto;

  4. Le strategie infrastrutturali evitino comparaggi e collusioni uscendo dal regime sregolato del famigerato Modello Genova, per tornare al sistema delle gare pubbliche internazionali.

Le elezioni regionali del dopo Toti, che si terranno tra ottobre e novembre prossimi, si preannunciano difficili e incerte negli esiti. L’opposizione sociale, con tutta la forza della sua lunga militanza e dell’ascolto costante delle donne e degli uomini di Liguria, assicurerà il proprio appoggio

Andrea Agostini, Nedda Amadei Bravo, Silvia Bernardello, Susanna Bernoldi, Ermete Bogetti, Daniela Brizzolari, Cristina Capponi, Irene B. Capponi, Raffaella Capponi, Sandro Capponi, Daniela Cassini, Carla Chiocca, Luigia Coppi, Caludio Culotta, Giampiero Cunati, Elisabetta Curti, Maria Chiara Daccò, Anna De Scalzi, Santino E. Donato, Jalal El Har, Marco Fabbri, Stefano Fera, Daniela Galleano, Raffaella Gualco, Vincenzo Lagomarsino, Patrizia Lazzari, El Malki Alaa Eddine, Marina Montolivo Poletti, Maura Olmi, Alba Rosa Ricci, Giuliana Semeria, Giovanni Spalla, Paolo Traverso, Rino Vaccaro Federico Valerio, Alessandro Zambernardi.

FUORISACCO

Attanasio stoppa l’abominevole uomo delle navi (con ripensamenti)

Intanto le velleità egemoniche del signor Gianluigi Aponte di Msc, intenzionato a comprarsi Genova a trance, hanno subito una battuta d’arresto. Difatti, dopo lo storico quotidiano genovese il Secolo XIX, sembrava fosse destinato a finire nel carrello degli acquisti pure il nostro aeroporto. Secondo lo stile del player salernitano-ginevrino che non si accontenta di vincere ma pretende sempre di stravincere. E guai se non lo si accontenta. Del resto la tavola era stata imbandita dal presidente del Cristoforo Colombo Alfonso Lavarello – notoriamente all’orecchio di Aponte – che dopo il primo anno di mandato speso a tagliare teste a Sestri, ha presentato un bilancio 2023 sul terroristico; prendendo in carico costi spalmabili su più esercizi e ponendo un aut aut: o la ricapitalizzazione di 4,8 milioni o i libri in tribunale. Nello stesso momento arrivava Msc sul bianco destriero, per acquistare la quota azionaria del 15% controllata da Aeroporti di Roma (che assommata al 60% di un’Autorità Portuale da tempo abbastanza sull’attenti innanzi al furor imprenditoriale di Aponte, gli avrebbe assicurato il pieno controllo dell’aeroscalo). Ma qui entra in funzione il dente d’arresto nell’ingranaggio piazzato da una persona pur prudente come il presidente camerale Gigi Attanasio – non un kamikaze – che per l’asset genovese cerca un socio d’impresa che gestisca, non un dittatore. Quindi scatta la prelazione che CCIAA vanta sul 4% delle azioni, abbassando la quota contendibile da parte di Msc al 11%. Che si ritira immediatamente sdegnata. Anche se Attanasio la ritiene comunque la soluzione ideale, se ricondotta nei limiti di una governance rispettosa dei partner. A cui si vuole arrivare. Mentre altre ipotesi irricevibili continuano ad aleggiare: c’è chi pensa di sbaraccare l’aeroporto per farne un terminal container (mentre il flusso dei cassoni cala costantemente di numero da anni). Lo vorrebbe il redivivo Aldo Spinelli, lo ipotizzava l’avvocato Luigino Montarsolo che già anni fa pretendeva di dirottare l’hub aeroportuale nelle nebbie di Novi Ligure. E poi c’è sempre il protagonismo di Bucci, che cercava di mettere lui le mani sul 15% di AdR. Intanto il fatidico pacchetto è finito in Camera di Commercio, dove Attanasio intende impedire la svendita di un bene prezioso; lasciato marcire per l’incuria (diciamo così) di troppi gestori assenteisti.

Caffaro

ECO DALLA RETE

Uomini liberi – politica savonese on line

del 2 agosto 2024, riprendendo il Fatto Quotidiano, ci fornisce la chiave interpretativa della mossa, a dir poco azzardata e certamente spudorata, dell’ingaggio del politico PD David Ermini da parte di Aldo Spinelli. Rara improntitudine mentre le inchieste della magistratura sono tuttora in corso, che dimostra nell’indagato l’assoluta mancanza di rispetto delle regole (formali e sostanziali) e la totale impudicizia di chi – comunque – si presume insindacabile. Nella convinzione tracotante di potersi comprare tutti e tutto.

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Perché Spinelli ha scelto Ermini

«Tutti ci siamo chiesti in questi giorni perché Spinelli abbia scelto proprio David Ermini, senza nessuna esperienza di porti, come ambasciatore del suo impero dello shipping?

Ermini non ha nessuna esperienza di porti ma molte relazioni politiche e inoltre c’è un particolare che ha avuto probabilmente un peso decisivo: il gruppo Spinelli ha una maxi-causa in corso contro l’Autorità portuale di Genova per il mancato rinnovo delle concessioni su due aree da 27 mila metri quadri, fondamentali per la gestione dei container.

Da qualche settimana a capo Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale c’è un altro ex consigliere del Csm a guida Ermini: Alberto Maria Benedetti, nominato commissario dopo le dimissioni di Paolo Piacenza perché indagato per abuso d’ufficio nell’inchiesta Toti. Benedetti, eletto al Consiglio in quota M5S, era stato a un passo dal diventare vicepresidente al posto di Ermini, che prevalse per soli due voti. Proprio il passato al Csm di Benedetti e il suo nuovo incarico all’autorità portuale, pare siano i motivi per cui Spinelli ha scelto Ermini. Il Fatto Quotidiano riporta il parere degli addetti ai lavori che raccontano come Aldo Spinelli abbia puntato su Ermini in funzione anti-Benedetti, per opporre al neo-commissario un’altra figura istituzionale – per di più suo ex “superiore” – aumentando così il peso politico del gruppo e le chance di vittoria in tribunale. Naturalmente il Pd sdegnato la considera un’ipotesi assurda».

Redazionale

ECO DELLA STAMPA

Domenica 3 agosto Stefania Aloia, cui auguriamo di mantenere il posto da direttrice del XIX nel passaggio della proprietà da GEDI a MSC, è intervenuta con un editoriale di prima pagina con l’intento di demistificare i punti salienti della narrazione di Toti sulla sua non encomiabile vicenda (“contro di me un processo alla politica”, “lasciamo una Liguria più ricca di lavoro, opportunità, speranze”). Purtroppo, senza accorgersene, tale intento si è trasformato in una serie di luoghi comuni che accreditano un’idea della politica assolutamente ingenua-irreale; proponendo una visione idilliaca, da normalizzatori tipo ex Editoriale la Repubblica, che finisce per incontrarsi con la mistificazione del già berlusconiano ex presidente ligure. Ne riportiamo ampi stralci.

il Secolo | ABC ARTE

Una politica morale (non moralista)

«Che politica vogliamo non lo decidono i magistrati, non è compito loro. Che politica vogliamo lo decidono gli elettori. Perché è esattamente compito loro. Tra tre mesi saranno i liguri a scegliere la politica alla quale vogliono affidare il destino della loro regione. Con lo stile del comunicatore che non ha perso un millimetro di smalto, Giovanni Toti da giovedì va ripetendo che quanto è successo in Liguria “è un attacco alla politica”. Ma di quale politica parla? Nelle interviste rilasciate subito dopo la liberazione l’ex presidente ha descritto la sua vis amministrativa come quella che ha fatto definitivamente uscire la Liguria dal grigiore e dall’irrilevanza a cui l’avevano destinata i suoi predecessori. E nel tratteggiare con Stefano Zurlo del Giornale gli altri da sé, quelli ai quali non vorrebbe che la regione venisse riconsegnata, insomma “quei boiardi rossi che forse vorrebbero tornare a un futuro che somiglia al trapassato remoto”, ha tenuto a sottolineare: “loro inseguono un paradigma moralista”.

In nessuna epoca storica il rapporto tra etica e politica è stato facile, e certamente di volta in volta il fattore interpretativo dà differenti chiavi di lettura alle azioni di chi amministra la cosa pubblica. Ma l’uso di Toti della parola “moralista”, in una torsione semantica tutt’altro che involontaria, sposta bruscamente il baricentro di quella interpretazione. E trasforma ciò che è morale, cioè rispettoso di un quadro valoriale condiviso, in ciò che è falsamente morale o lo è in modo ipocrita. Dunque, al di là dello sviluppo e delle magnifiche sorti e progressive della Liguria al quale non c’è coalizione che non aspiri, esiste un solo discrimine sul quale dovrebbero davvero interrogarsi gli elettori: la politica che vogliono deve avere come prerequisito un legame inscindibile con la morale oppure no? Potrebbe essere l’occasione per sgombrare il campo dagli infiniti malintesi, che se costruiti ad arte diventano una trappola mortale già vista.

Per spazzare via la discussione dagli equivoci va chiarito che parlare con gli imprenditori non è amorale: lo è se lo si fa in un contesto selettivo e non rispettando i ruoli. Neanche aiutare l’imprenditoria è amorale: lo è se il supporto non mette tutti gli aventi diritto in posizione di partenza paritaria. Considerare la sanità privata come un patrimonio non è amorale: lo è se prima non si mette in sicurezza quella pubblica, lasciandola senza risorse e in una costante condizione di debolezza. E così via».

Stefania Aloja

GLI ARGOMENTI DEL GIORNO

LA LINEA GENERALE

Una visione d’insieme sullo stato dell’arte regionale

Basta Candide! Una risposta alla dottoressa Aloia (e di striscio a Toti)

Gentile Dottoressa Aloia, esordire nel suo editoriale accreditando la tesi che i giudici decidono politiche ad libitum può garantire immediati plausi dagli adepti berluscones e dalle seconde generazioni Agnelli-Elkan. Però suona a ricicciaggio di argomentazioni strumentali che ascoltiamo dai primi ’90, da quando la magistratura ha cominciato a schiudere maleodoranti sentine del malaffare; soprattutto da parte dei banditori a tassametro dei potenti sotto minaccia di smascheramento. Tesi il cui coté retrostante consiste nell’assunto di un’immaginaria sacralità della politica che suona a smentita dei fondamenti del costituzionalismo liberale, vanto dell’Occidente. Ossia la piena parità tra i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) nella loro funzione di controllo reciproco. Sicché il finto pacioso Dottor Toti dovrebbe risparmiarci le tirate sulla morale contrapposta al moralismo, visto che già Ser Machiavelli illustrava separatezza tra politica ed etica. Semmai ci sono le regole. Come il viareggino paracadutato in Liguria da Mediaset tendeva a dimenticare sguinzagliando i suoi famigli nelle fiere boarie del mercato dei voti. E in democrazia la regola è quella competitiva, condizione che in Liguria si calpesta dal dopoguerra, praticando tassi spudorati di consociazione. Cara Direttrice, lei è da poco tra noi. Urge si documenti sulla sequenza ininterrotta di city-boss che ha spadroneggiato in queste lande politicamente sottosviluppate. Quelli che hanno sempre imposto agli elettori chi e per cosa votare. Mercificazione della salute privatizzata compresa. Magari terrorizzando con l’annuncio locale del pericolo comunista, mai esistito neppure al tempo della Guerra Fredda; con cui Silvio Berlusconi recitava la parte nazionale di liberatore della Patria minacciata per un pubblico di babbei (o gente che riteneva “comunismo” l’obbligo di pagare le tasse. Che una degna epigona definisce “pizzo di Stato”).

Sicché fa ridere il vittimismo di chi s’impanca a benefattore vilipeso dell’impresa. Un po’ perché gli aiutini erano a fronte di bonifici. Poi perché erano indebiti. Tipo la concessione trentennale di aree pubbliche, consentendo all’aiutato concusso di valorizzare la propria impresa per meglio rivenderla. Mercimonio che ora – alla faccia dei trionfalismi – ci consegna una regione fanalino di coda in ogni classifica socio-economica.

Cara Dottoressa, ci attendono mesi di intorbidamenti delle acque. Una sana ermeneutica del sospetto può essere l’ultima salvezza.

Pierfranco Pellizzetti

Ha scritto il sociologo di Berkeley Manuel Castells: “la mia analisi non condivide l’improbabile esistenza di una power élite alla Wright Mills. Al contrario, il dominio reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale in un grado tale che il possesso di tali codici apre l’accesso alla struttura del potere senza che sia necessaria una cospirazione dell’élite per bloccare l’accesso alle sue reti”. L’approccio che ritroviamo in questo prezioso contributo di Andrea Moizo, grande esploratore di ciò che avviene nei meandri affaristici genovesi: l’acquiescenza ai diktat del comando come mood ambientale.

Il potere come mentalità (in Port Autority)

Fra i molti aspetti meta-giudiziari che le recenti inchieste della Procura di Genova evidenziano ce n’è uno, negletto, su cui invece mi soffermerei; ché del “potere” genovese rappresenta non il viso – cioè i titolari bene o male noti ai più – ma l’ossatura, su cui l’esercizio del potere stesso da parte di qualsivoglia detentore poggia, qui e più in generale in Italia. Lo spunto viene dalla fresca pubblicazione dell’interrogatorio d’un dirigente dell’Autorità portuale. Costui in sintesi dice che il superiore, direttore e segretario generale, era a conoscenza d’un’occupazione abusiva perpetrata da Spinelli, e che non prese provvedimenti nemmeno dopo la formale segnalazione della cosa.

È l’ennesimo episodio d’un dirigente di Autorità portuale che testimonia d’aver avuto contezza di anomalie/irregolarità/illeciti veri e propri e non averli denunciati, se non almeno in questo caso al diretto superiore. Altrettanto sta avvenendo con le inchieste riguardanti gli uffici regionali e le altre amministrazioni protagonisti dei casi dei dragaggi e dei depositi chimici. E da cronista avrei gioco facile ad elencare casi di funzionari apparentemente ciechi e muti. Esponenti, perlopiù, dei ranghi più elevati, con stipendi superiori ai 120mila euro annui, 6-8 volte quello che guadagna l’italiano medio. Tecnici, spesso, di concrete competenze e lunga esperienza. Ma dimentichi dell’articolo 98 della Costituzione (“i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”) e quindi facondi solo quando la testimonianza – come nel caso di specie – sia barattabile con la non imputazione per omessa denuncia. Per esperienza e istinto non credo si tratti d’inerzia prezzolata. Credo cioè, perlomeno nella maggioranza dei casi, che non si tratti di corrotti, ma di ignavi. Che per mettersi il prosciutto sugli occhi s’accontentano di quieto vivere, progressioni di carriera e stipendio. Finendo però per rappresentare una ferrea garanzia d’impunità per chi del potere ami abusarne.

I processi, decapitando al limite qualche testa ma non sfiorando la densa falange di seconde linee, non sono utili alla soluzione d’un problema non minore (il danno sociale degli ignavi è tale che già Dante li definisce “a Dio spiacenti e a’ nemici sui… sciaurati, che mai non fur vivi”). Ma l’auspicio è siano da lezione – su meccanismi di cooptazione nella pubblica amministrazione e prima ancora su educazione alla civitas – per chi al potere, rectius all’equilibrio fra poteri, sia interessato.

Andrea Moizo

AMBIENTE

La fragile bellezza di uno spazio sotto costante attacco

Lamento ferragostano per i pini marittimi di Brignole

Ancora una volta senza avvisare i cittadini residenti, senza alcuna programmazione cittadina si decide di abbattere 13 pini marittimi davanti alla stazione Brignole, in piena estate con rischi di colpi di calore per gli anziani, senza aver mai provveduto a curarli, senza alcuna autorizzazione paesaggistica della sovrintendenza al paesaggio, con autorizzazioni date ad aziende per stesura reti telefoniche e tubi fognari, non dando ai cittadini la possibilità di poter appellarsi e presentare controdeduzioni tecniche, con un grave danno erariale, con la prevista ( ma solo prevista) ripiantumazione in autunno di alberi più piccoli (lo dice il responsabile di Aster verde) per risparmio economico nella manutenzione, ma contro il regolamento del verde del Comune. Insomma, Attila con coperture politiche che guardano dall’altra parte mentre la bellezza della città viene sistematicamente distrutta per soldi. Ricordo che a Londra, a parere degli amministratori e delle agenzie governative, ogni sterlina investita nel verde ha prodotto 23 sterline di guadagno ai conti pubblici. Chissà perché i nostri Attila certe cose non le leggono? Forse perché sono ungheresi e non parlano l’inglese? L’unica certezza è che dopo ferragosto i pini malati e non curati saranno sostituiti. Ma con piante più piccole.

A.A.

Sognando Parigi

Siamo a Parigi. Quella che vedete è piazza di Catalogna. Anzi: la nuova piazza Catalogna!

Hanno rimosso asfalti e lastricati e hanno fatto spazio a 500 alberi e 16.000 altre piante. Una mini foresta! Hanno lasciato in funzione solo dei piccoli tratti di transito veicolare e le parti pedonalizzate sono state integrate con il verde.

L’obiettivo è creare isole di frescura e abbassare la temperatura in città (oltre invertire la tendenza al consumo del suolo). Si può fare. Per ora sono esperimenti all’avanguardia. Ma sì può fare! Si può comprendere che è nella natura l’armonia che ci farà vivere meglio.

Com’è Agostini 2, come sarà

Andrea Agostini

Bucci si inventa la favola di Genova green per abbattere altri alberi

Agosto, cittadino mio non ti conosco. Non è un caso che, proprio nel mese in cui le famiglie genovesi vanno in vacanza, vengano decisi ed effettuati provvedimenti che in altri momenti sarebbero oggetto di sonore e magari efficaci proteste. È il caso dell’abbattimento di numerosi (almeno una quindicina) pini secolari davanti alla Stazione Brignole. Il Sindaco si difende raccontando che Genova ha il primato italiano di città verde. Fatto confermato (fonte Secolo XIX del 5/11/22) anche da Coldiretti. E allora? Ha ragione lui? No, perché come al solito si mistifica la realtà, confondendo Genova città con Genova Metropolitana: infatti sia il Sindaco che Coldiretti fanno riferimento a quest’ultima, introdotta con una legge del 2014. Il cui territorio – udite, udite – è di fatto rappresentato da quella che era l’intera provincia genovese: oltre 1.800 km quadrati in cui sono presenti grandissime aree di verde, comprese le zone di Santo Stefano d’Aveto, del comune boschivo di Sant’Olcese con tutti i suoi monti, di Campomorone nel ponente e delle alture sopra Voltri che finiscono confinanti con la provincia di Alessandria; e a levante con l’entroterra da Bogliasco a Sestri Levante. Quindi, tagliare gli alberi in città adducendo come scusa quella che Genova è la città più green d’Italia è fare l’Azzeccagarbugli della situazione, trincerandosi dietro dati statistici incoerenti. Da Tursi è stato detto che nasceranno nuovi parchi vicino alla Lanterna e a Piazzale Kennedy. Parole, come quelle di Salvini che nel 2016 sosteneva che il Ponte sullo Stretto non andrebbe fatto: doppio salto carpiato tipico dei soliti personaggi. E poi un’ultima considerazione: perché tagliare questi alberi che sono malati solo secondo Aster e non hanno mai dato segni di cedimento? Aster è una SpA, che secondo la nota trasparenza ha pubblicato l’ultimo bilancio nel 2020: basta andare sul sito istituzionale per scoprire l’anomalia. E allora, da chi prende ordini Aster, società controllata al 100% dal Comune di Genova? Da nessuno, ovvio: honni soit qui mal y pense. Ma mi piacerebbe che il nuovo CEO (da aprile di quest’anno), Francesca Aleo, desse ai cittadini qualche notizia in più. D’altra parte, chi ha dato il parere di abbattimento, Aster o Bucci? Insomma, siamo alle solite: come nel caso della funivia del Lagaccio, dello skymetro e del tapis roulant dell’aeroporto, perché sempre provvedimenti presi alla faccia dei cittadini? Geremiade? No: semplice constatazione.

Carlo A. Martigli

Sentinelle dei fumi: continua il presidio ambientale dei cittadini

L’attività delle Sentinelle dei Fumi dal Porto continua, senza sosta.

Anche a Ferragosto, alcune di loro erano in allerta e hanno documentato fotograficamente i traghetti che hanno emesso fumate più o meno “scure”; in particolare lo sforamento della Moby Tommy. Quindi abbiamo le prove, confermate dalla Capitaneria di Genova, che dal 19 giugno, data di avvio della sorveglianza, al 26 agosto, sei traghetti, per più volte, non hanno rispettato la Regola numero 6 del “Genoa Blue Agreement,” sottoscritta dai loro armatori: non emettere fumi scuri per più di quattro minuti. E sul “podio di chi fuma di più” si sono trovati: Moby Wonder (31 sforamenti), Moby Aki (24 sforamenti), GNV Spirit (21 sforamenti). A seguire: Moby Drea (11), Moby Otta (10), GNV Allegra (8).

Nonostante gli interventi della Capitaneria e qualche rapido passaggio alle Riparazioni Navali, le tre “maglie nere” continuano a sfumazzare più del dovuto, come documentano i rapporti giornalieri pubblicati dal gruppo Face Book “Sentinelle dell’Aria”.

E la qualità dell’aria, in via Bari, dalle parti di San Teodoro, alle spalle del porto come va?

Gli ultimi dati sulla concentrazione di biossido di azoto, il principale inquinante presente nei fumi navali, forniti dalla mini cabina ARPAL in via Bari, nei pressi della stazione della funicolare, segnalano che, dopo un massimo di 60,3 microgrammi per metro cubo (ug/mc) registrato il 10 agosto e i 58,7 ug/mc del 12 agosto, entrambi superiori al limite giornaliero recentemente approvato dalla UE (50 ug/mc), c’è stato un rapido calo dell’inquinamento nei giorni successivi, con 6,3 ug/mc del 19 agosto e i 15,8 ug/mc registrati il 20 agosto. Quale sia stata l’evoluzione della qualità dell’aria a San Teodoro nei giorni successivi non è dato sapere: un esposto di cittadini, infastiditi dal rumore del condizionatore d’aria a servizio del campionatore di via Bari, ha costretto ARPAL a spegnerlo. E ora le sentinelle sono anche alla ricerca di un nuovo sito per riprendere le misure del biossido di azoto nell’aria del quartiere e poter verificare l’efficacia delle loro oltre 500 segnalazioni di navi più o meno “sfumazzanti”, fino ad oggi acquisite.

Federico Valerio

POLITICA E ISTITUZIONI

Lo stato dell’arte delle regole e delle pratiche pubbliche

Ma con che faccia?

Ma con che faccia Giovanni Toti e i suoi corifei, locali e nazionali, possono somministrarci l’immagine vittimistica del perseguitato “per aver costantemente praticato la tutela e lo sviluppo del territorio ligure”? Visto che ormai anche la procura genovese indaga su quanto mesi fa anche il nostro web magazine aveva segnalato: l’autorizzazione dell’Ente regionale, presieduto dal suddetto, a sversare nello specchio marino sestrese ben 700mila metri cubi di fanghi tossici. Il venefico sottoprodotto di lavori a vantaggio dei soliti Aponte e Spinelli, che per legge doveva essere smaltito come rifiuto speciale o confinato in vasche impermeabilizzate. Dunque, un vigoroso contributo totiano alla trasformazione dell’ambiente in letamaio biologicamente micidiale, che l’autore del misfatto minimizzava con tutta la sua tracotanza definendone la rivelazione “idiozia da querela”.

Con che faccia gli orfani del totismo possono stigmatizzare “il colpo di mano anti-democratico contro un eletto del popolo”, quando il ceto politico di destra e sinistra ha ridotto la democrazia a barzelletta? Operazione di cui il Totigate (buon ultimo, sia chiaro) ha dato ampie dimostrazioni inquinando la costruzione del consenso popolare tramite il foraggiamento degli organi di informazione e stravolgendo il momento elettorale con le pratiche di compravendita dei voti.

Con che faccia il primo compare del fu-Governatore – il sindaco genovese Marco Bucci – può irridere con l’epiteto dall’intento insultante “radical chic” (in realtà sintomo di risentimento da NIP, not important person) chi si permette di criticare il suo iper-attivismo allergico alla rendicontazione e – soprattutto – inconcludente? Sia chiaro: fino a prova contraria siamo pronti a ritenere che il Bucci non sia coinvolto nelle dazioni a seguito concussione in cui ha brillato il suo partner. Fatto sta che per una favorevole congiuntura astrale gli sono piovuti in grembo tanti soldi quanti un impiegato della Kodak, poi dirigente di nomina politica, neppure avrebbe immaginato. E questo gli ha dato alla testa, così da sperperare il ben di dio in scriteriate spese di grandezza. Aggirandosi, come i cadetti di Guascogna, “ebbro di gloria/ più che di borgogna”.

Per cui si spera che i prossimi successori di questi tipetti – per dirla alla Gilberto Govi, “con la faccia come le lastre” – esibiscano volti più decorosi. Anche se la genia degli sfacciati – di cui abbiamo già sentito proferire qualche nome – non ci induce all’ottimismo.

Pierfranco Pellizzetti

Questa politica Milan Style che ci rende degli estranei in casa nostra

Se guardiamo la Liguria nel suo insieme, ne siamo conquistati dalla bellezza assoluta, la varietà di paesaggi: mare, sabbia, scoglio, monte, acqua che scende al mare, laghetti.

Un incanto che ci rimane impresso e che andiamo a cercare o riconoscere nei posti più lontani: forse per quel “se ghe pensu” che se ne sta lì in agguato come una ligustica saudade, forse per quella cantilena del linguaggio che ci fa essere vicini ai brasiliani.

E allora perché a molti di noi – a un certo punto – viene voglia di andarsene? E perché, anche se non lo fanno, molti continuano a pensare che altrove vivrebbero meglio? Varchiamo i confini della Regione – per lavoro o vacanza – e abbiamo la sensazione di stare in un mondo, in qualche modo, migliore: che sia una maggior cura del territorio o dei beni culturali, che sia un diverso orgoglio di appartenenza o un approccio diverso a chi viene da fuori. Chissà. È come se il territorio antropizzato stesse pian piano facendo la fine delle falesie che stanno crollando, a Sori come a Camogli. Si sa che, prima o poi, crolleranno, ma non si fa assolutamente nulla per assecondare il fenomeno non opponendovisi, ma costruendo un adattamento accettabile.

La sensazione è che il nostro territorio venga (sia stato) trattato non come bene da preservare, ma come un territorio di conquista, colonia, una risorsa da sfruttare senza alcun vantaggio per i suoi abitanti.

Ma, passi essere colonizzati dal foresto. Esser trattati come una colonia dai local, francamente no! Eppure, a sentir l’eloquio e la cadenza di chi si muove amministrativamente proprio come un foresto, il dubbio che qualcosa di foresto in loro ci sia davvero. Magari non necessariamente le origini, ma una sorta di Milan style con cui fare i dané è il Primo comandamento uno punto uno. Perché – ne sono più che certi – sono i soldi che muovono il mondo, gli danno forma, ordine e basta con ‘ste perdite di tempo con ideali, Costituzione, democrazia, poche musse (e qui si torna al gergo local).

Così vien voglia, o si sogna, di andarsene, di seguire “quella voglia di avventura” cantata dai nostri New Trolls nella loro canzone sul padre (andare) e sulla madre (restare).

Perché, alla fine, non se ne può più di essere trattati come “danni collaterali”, di ricevere continue provocazioni a imposizione di un modello che consideriamo non soltanto distruttivo e privo di prospettiva, ma anche, semplicemente stupido e brutto, esattamente come tutte le cose banali che, alla fine, producono soltanto crudeltà.

Maura Rossi

La prima tutela in una regione che invecchia

Pro-memoria sul Ssn per i propugnatori della sanità pubblica

Il Servizio sanitario nazionale fu istituito il 23 dicembre 1978 con la Legge 833/78, basata su 4 principi: globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e libertà personali.

Fu uno degli ultimi bagliori del fervore democratico che caratterizzò il decennio precedente; ma che ormai risultava marginale rispetto allo spirito dei tempi sull’onda del thatcherismo. Come scrisse Francesco Taroni dell’Università di Bologna, «Negli anni Settanta, le conquiste del movimento operaio, del movimento femminista e della psichiatria radicale avevano nutrito una domanda di servizi gratuiti in grado di consentire l’ampliamento dei diritti sociali e il diritto universale a prevenzione e cura». Poi aggiungeva: «nello stesso tempo, il disavanzo degli enti mutualistici e ospedalieri aveva creato una finestra di opportunità». Ma quella “finestra di opportunità” si chiuse rapidamente, mentre le indecenti predicazioni alla Milton Friedman, capofila della Scuola di Chicago e massimo ispiratore della controrivoluzione liberista («nessun pasto è gratis») spazzavano via l’aggregazione socio-politica italiana che aveva reso possibile il Ssn; in sintonia con l’articolo 32 della Costituzione. Ben presto gli avversari dell’idea “sovversiva” (!) di sottrarre la salute al mercato entrarono in azione per vanificarla. Per cui, già quindici anni dalla sua introduzione, la controriforma Amato-De Lorenzo stravolgeva la 833 aziendalizzando, regionalizzando e privatizzando il servizio sanitario; trasformando le Usl in Asl (Aziende ospedaliere) in omaggio al mantra imprenditoriale. Operazione continuata e che continua per una ragione semplicissima: sono state azzerate le condizioni sociali e politiche per tutelare la logica del Sistema. La politica privilegia l’interlocuzione col privato che consente il binomio tagli/affari. E la Sinistra ha smesso di contrastare le manovre anti-popolari della Destra da quando Romano Prodi e Massimo D’Alema diventarono alfieri italiani della Terza Via (“la Prima Via con un po’ di zucchero”, disse il politologo di Harvard Mangabeira Ungher). E non c’è niente da aspettarsi dai berlusconiani di complemento: il sindaco di Milano Beppe Sala già portaborse della Moratti o il possibile neopresidente ligure Andrea Orlando, follower dell’avvocato Ghedini sulla divisione delle carriere dei magistrati. Solo una ripresa della combattività sociale può salvare dall’annientamento quanto resta della sanità pubblica.

Maura Galli

Sanità ligure, tutto a posto…e niente in ordine

La Corte dei Conti ha deliberato il 19 luglio u.s. la sua “Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni/province autonome” per l’esercizio 2020 – 2023. Secondo il documento “le risorse sanitarie assegnate alle Regioni, pur aumentando, non hanno compensato l’aumento dei prezzi, riducendo la spesa sanitaria rispetto al Pil. Una manovra restrittiva (che pare ineluttabile n.d.r.) potrebbe aggravare queste criticità, soprattutto nel settore sanitario, dove il diritto alla salute prevale sull’equilibrio di bilancio”. Eppure dagli indicatori Eurostat il tema della salute per noi non va così male. La spesa sanitaria, principale componente di spesa per le Regioni (circa il 70%), nonostante i macroscopici divari territoriali, continua a realizzare performance superiori alle medie dell’UE. La stima 2022 degli anni in buona salute in Italia è di 67,4 anni (media UE 62,6). Anche il tasso di mortalità evitabile è stato pari a 192,4 (media UE 294,1). Gli indicatori che segnano valori peggiori di quelli UE riguardano mortalità per malattie infettive, incidenti sul lavoro, morti premature per inquinamento atmosferico e incidenti stradali. Con ancora ampi divari tra Nord e Sud. Nel 2022, la speranza di vita senza limitazioni nelle attività a 65 anni, pari a 10,6 anni in media nazionale, cresce ai valori massimi in Liguria (11,8), e minimi in Calabria e Sicilia (8,8). La Corte dei Conti ha poi parificato il rendiconto 2023 della Regione Liguria, che ha dovuto coprire con risorse regionali un disavanzo sanitario di 74,77 milioni (in peggioramento rispetto agli esercizi precedenti). La cattiva notizia è che nel 2023 è stato incrementato ulteriormente il fondo assegnato ad ALISA, l’Azienda preposta dal 2016 al governo del Servizio sanitario ligure. I 46,2 milioni del 2019 sono diventati 474 nel 2023, per via delle “più ampie funzioni attribuite”. I cui risultati sono però da verificare. È proprio Alisa che ha valutato il raggiungimento degli obiettivi 2022 dei direttori generali delle ASL Liguri, cui sono stati elargiti premi dai 20 ai 30 mila euro. Nonostante che alcuni di tali obiettivi non siano stati raggiunti, come sa bene qualunque cittadino che provi a prenotare una risonanza o una colonscopia…Anche i vertici di Alisa si sono premiati, manco a dirlo. Ancora, dal documento della Corte dei Conti continuano a emergere le fughe dei pazienti liguri verso altre Regioni (negativo per 69,52 milioni, in peggioramento rispetto agli anni precedenti).

Nuccia Canevarollo

SPAZIO E PORTI

Traffici e infrastrutture nella prima industria ligure

Una semplice domanda agli spedizionieri: tifate Calderoli?

C’è da domandarsi se il comunicato di Spediporto, l’associazione genovese degli spedizionieri, che rilancia con toni drammatici (“oggi i porti ricevono solo le briciole”) l’appello affinché i porti ricevano dallo Stato più soldi in cambio dell’IVA dovuta sull’importazione di merci, sia frutto del clima feriale; che notoriamente non favorisce discorsi assennati. Ossia scrivendo che i porti liguri sono tra i più importanti “contribuenti” per gli incassi IVA. Fare passare i porti per contribuenti, ossia come coloro che versano i tributi allo Stato, pare davvero una imprudenza, che non avrà fatto piacere ai clienti degli spedizionieri, che sono gli effettivi pagatori dell’imposta. I porti, come recita la legge, sono solo il “tramite” dell’introduzione nel territorio nazionale delle merci per cui è dovuta l’imposta dal contribuente. Sicché i porti non producono alcun gettito IVA, esso avviene con l’attività di sdoganamento della merce importata: prova ne è che i porti di transhipment ne sono esclusi; ma anche i porti di destinazione lo possono essere se l’operazione doganale si realizza altrove, come nei retroporti. Né possiamo immaginare che Spediporto rivendichi la compensazione di una sorta di servaggio a cui la città, tramite il porto, sarebbe soggetta in termini di esternalità negative. Che siano le imprese a evocare per il porto il carattere di servitù sociale e non di opportunità economica sarebbe una notizia degna davvero del Ferragosto.

Ma Spediporto vuole più soldi “nelle casse del sistema portuale e della nostra regione”. Per farci che cosa? Non lo dice. Tralasciamo la regione che evoca il tema spinoso dell’autonomia differenziata (o forse Spediporto si dichiara favorevole?), rimaniamo invece ai porti. La legge in vigore prevede che ogni anno lo Stato versi ai porti una somma pari all’1% del gettito IVA dovuto per il “tramite” rispettivamente di ciascuno di essi. La legge destina questi soldi a investimenti in conto capitale per “agevolare la realizzazione delle opere previste nei piani regolatori e operativi”.

Nel caso di Genova e Savona, in 7 anni, dal 2017 al 2023, grazie a questa norma sono entrati in bilancio oltre 110Mio €. Sono pochi? Forse, ma il fine è di “agevolare” non coprire i fabbisogni. Semmai impostare un legame diretto tra volume di traffici e finanziamenti, per avviare un circolo virtuoso che porti all’ottimizzazione degli investimenti e all’aumento di produttività e competitività del porto.

R.D.I.

Un po’ di chiarezza sul ruolo pubblico e i veri problemi dei nostri porti

Intanto, a prescindere dal gettito IVA, lo Stato ha trasferito a Genova e Savona quasi 1,7Mld € in conto capitale a finanziamento pubblico delle opere pianificate. Se si guarda alle uscite, la spesa in conto capitale in opere sale nello stesso periodo a oltre 2,1 Mld € grazie al contributo in entrata delle tasse portuali e dei canoni demaniali. Tutto fuorché “briciole”. Ma anche, tutto fuorché porti dipendenti da scelte assunte in sede centrale in maniera intempestiva e inefficace, come si suole contestare all’amministrazione statale da parte di chi sostiene le istanze di autonomia.

Mentre i veri motivi di preoccupazione sembrerebbero essere altri. Infatti, nonostante il massiccio flusso di investimenti in opere, da sette anni a questa parte (si tratta quindi di una tendenza) i traffici nei porti di Genova e Savona stentano a crescere, ristagnano se non addirittura calano. Soprattutto non si vede una correlazione positiva tra investimenti e risultati. Per esempio, a Vado la piattaforma container, costata allo Stato 300Mio € + 80Mio del prolungamento della diga in corso, doveva produrre 8-900mila teu e invece dal 2020 a oggi stenta a farne 300mila; al terminal Bettolo costruito con 230 Mio pubblici per produrre 800mila teu, e per cui si continua a spendere, pure in attesa del consolidamento di una parte del terminal e l’allargamento della diga, non si raggiungono oggi i 100mila teu dopo altrettanti anni. Ma anche PSA al Sech e a Prà sono al di sotto dell’ottimizzazione degli investimenti pubblici con traffici molto inferiori al potenziale organizzativo e alla superficie data in concessione.

Che la portualità genovese ami tendere la mano sollecitando l’obolo, faccia continuamente “pressing” per chiedere nuovi investimenti infrastrutturali, senza fermarsi a considerare seriamente lo stato dell’arte e le prospettive dei traffici (a Palazzo San Giorgio si assumono ingegneri invece di economisti), è emerso in tutta evidenza con la nuova diga. Un’opera epocale, non solo per la importanza ma anche per il costo, che tuttora trova la sua esclusiva giustificazione progettuale nel consentire l’accesso nel bacino di Sampierdarena a improbabili mega-navi portacontenitori, invece di indirizzare un progetto di tale impegno e prospettiva verso una riorganizzazione complessiva del porto, delle sue funzioni e attività, che ne rilanci davvero la ricchezza e il lavoro su una seria e convincente ipotesi di futuro.

Riccardo Degl’Innocenti

FATTI E MISFATTI

Affarismi (o peggio) e miserie del potere, locale e non

Ponte Morandi: vogliamo farla finita con lungaggini e autoassoluzioni?

Da ormai 6 anni, il 14 agosto celebriamo, purtroppo, la triste ricorrenza del crollo del Ponte Morandi.

Per l’occasione, il nostro Presidente Mattarella ha auspicato che si arrivi al più presto alla individuazione delle responsabilità che – al contrario – sembra piuttosto lontana.

È evidente che ognuno deve fare il proprio mestiere e così gli avvocati degli accusati stanno producendo, o hanno già prodotto, una ponderosa perizia dalla quale si evincerebbe che non sarebbe stato possibile individuare le usure che causarono il crollo a causa di un cosiddetto “vizio occulto”, se non anche di un errore di progettazione/costruzione. Ovviamente anche i giudici devono fare il loro mestiere e stanno approntando una altrettanto ponderosa documentazione a confutazione di quella dei difensori. E fin qui ci stiamo muovendo nel normale sviluppo processuale. Piuttosto, quanto davvero non sembra tanto normale è che la preparazione, consultazione, discussione e messa agli atti di queste due nuove super perizie potrà fare arrivare il dibattimento a metà 2026. Data vicina in maniera preoccupante a quella di prescrizione per alcuni reati contestati: ad esempio quelli di omicidio stradale. Ecco, pur essendo io un convinto garantista, riterrei inammissibile che il processo non riuscisse ad individuare le responsabilità entro i tempi stabiliti. D’altro canto, con le premesse di cui sopra, mi sembra che gli unici interventi all’altezza del il momento siano stati quello del Presidente Mattarella e quello di Egle Possetti (portavoce dei familiari delle vittime); francamente la parata degli altri partecipanti sul palco con i loro “io ho fatto”, “io ho diretto”, “io ho aiutato”, “io ho organizzato” non mi è piaciuta per nulla. Una battuta di Marco Bucci (che per altro ho criticato in più occasioni) invece mi è piaciuta: “Morandi: una ferita aperta per Genova”.

Ecco signor Sindaco, passiamo dalle parole ai fatti creando un movimento cittadino, sponsorizzato dal Comune, a supporto del comitato famigliari e di sprone alla giustizia con presidi permanenti nei luoghi iconici e strategici, anche con gli ormai abusati gazebo, di sensibilizzazione dei nostri concittadini ormai abituati a “subire”. A cominciare dai SEI anni (guarda un po’: gli stessi anni della ricorrenza) di cantieri sulle autostrade liguri.

Roberto Guarino

Pedofilia a Genova. Ma il vescovo Tasca è in altre faccende affaccendato

Conosco dei preti meravigliosi, come don Paolo Lobiati, figlio di contadini, musicista, teologo e avvocato rotale che scrive le arringhe in latino, mio grande amico. Come monsignor Marco Granara, fino allo scorso anno rettore del santuario della Madonna della Guardia. Poi ci sono le mele marce, ancora più marce dei laici che commettono gli stessi reati, perché i sacerdoti dovrebbero avere quanto meno più rispetto per il loro abito e la loro funzione, e timore escatologico per le loro azioni. Parlo in particolare dei preti pedofili. A suo tempo, abbiamo avuto il cardinale Bagnasco. Nel 2017 nascose nella parrocchia di Di Negro il prete pedofilo Carlos Buela, fondatore della Congregazione Il Verbo Incarnato. E nel 2019 don Francesco Castagneto, parroco di Sori, sotto accusa da parte di decine di fedeli, fu trasferito di nascosto in una parrocchia di Albaro, per poi farlo scappare da lì. E ora, il caso allucinante di Andrea Melis, direttore di scuola elementare e della Fondazione Assarotti, Presidente della federazione delle scuole cattoliche primarie e secondarie. Accusato di violenza sessuale, prostituzione minorile e tentata violenza aggravata. Pedofilo, e pure con l’AIDS da una decina d’anni. Forte del suo ruolo offriva ai ragazzini soldi, ricariche telefoniche, felpe griffate e altri gadget. Interrogato dal PM, e costretto dall’evidenza delle registrazioni telefoniche, dai messaggini sui cellulari e dalle accuse testimoniali, come il più furbacchione dei criminali, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma lo schifo non è solo questo: il pesce – come si dice – puzza dalla testa. Nonostante il fatto che nel 2021 il diritto canonico abbia inasprito le pene per la pedofilia (pur restando nel generico), con tanto di imprimatur del papa, qui a Genova, il vescovo francescano Marco Tasca, a distanza ormai di settimane dalla scoperta giuridica dei crimini di Melis (anche se da tempo si mormorava e la Chiesa ha grandi orecchie, ma bocca piccola, evidentemente) è rimasto muto, non ha detto una parola. Di condanna, di scuse, di provvedimenti: niente. Come se il fatto non esistesse. E se lui tace, i pedofili, gli altri, si sentono protetti. Gesù, in Matteo 18, dice che chi solo scandalizza un bambino “… sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato negli abissi del mare”. Il mare lo abbiamo, il pedofilo pure: e Tasca tace.

Carlo A. Martigli

UNO SGUARDO DA LEVANTE

Cosa bolle in pentola nell’Est ligure? Testimonianze

Il voto visto dal Levante e gli eccetera rimossi.

Un vecchio adagio recita che dopo i tuoni pioverà. Sulle ali del metaforico proverbio ragioniamo sulla Liguria dal Levante, terra di mezzo tra Genova e Spezia.

L’ultimo voto regionale del settembre 2020 vide la vittoria di Giovanni Toti dopo l’ennesimo e snervante dibattito per ri-trovare un candidato di Centrosinistra. La scelta di Sansa mi trovò consenziente, ma fu danneggiata dall’insopportabile surplace per arrivarci. Eccetera. Ma è proprio l‘eccetera che deve essere indagato per capire le ragioni della sconfitta.

Gli elettori chiamati a scegliere il presidente della Regione erano circa un milione e 300mila. A votare andarono meno di 720mila (il 53%) con un suffragio che premiò Toti di poco meno di 384mila voti (il 56%). Per completare il quadro è bene esaminare la composizione dell’alleanza che sostenne Toti: la lista più votata fu una civica dal nome tutto un programma di “Cambiamo con Toti”. I “civici” regionali superarono i partiti nazionali e raggiunsero il 22% dei voti, incassando 8 consiglieri; sulle note dello slogan “Cambiamo con Toti”. Ora ci informano che il loro prossimo candidato civico sarà espressione della società civile, dell’imprenditoria e delle professioni.

E l’opposizione? Il Levante si colloca geograficamente a sinistra della topografia e forse per questo il primo nome balzato fuori è quello dell’ex ministro PD Orlando di Spezia. Ho subito pensato al 47% dei non votanti e all’occasione del voto anticipato come opportunità per un confronto, per riconquistare la fiducia di chi non vota più. Però autorevoli membri dell’attuale dirigenza politica (pluri-sconfitta) replicano di non perdere tempo in chiacchere. Mentre resto preoccupato dei tanti eccetera irrisolti del 2020, delle infinite liste d’attesa per la sanità, delle grandi opere realizzate senza confronto, di una politica che non rappresenta più una parte consistente di liguri. Quelli del “Cambiamo con Toti” hanno iniziato la ricerca del candidato civico, noi abbiamo paura di perdere tempo in chiacchere. Peccato: da Levante possiamo gridare, ma Genova è lontana e forse non ci sente! La fiducia non può essere intercettata da un singolo, ma da un processo democratico che segni la rotta del cambiamento per un milione e 300mila votanti. Il loro “Cambiamo” era il regalino in soldoni, le concessioni portuali, le spiagge e gli affari di pochissimi. Noi in fila per una visita medica prevista tra un anno e mezzo! Eccetera: come nel 2020.

Getto Viarengo

UNO SGUARDO DA PONENTE

Cosa bolle in pentola nell’Ovest ligure? Testimonianze

Un parco eolico dannoso per il Ponente

È spuntato ad agosto un Progetto di Parco eolico della potenza complessiva di 198,4 MW da realizzare nei Comuni di Aurigo, Borgomaro, Castellaro, Cipressa, Dolcedo, Pietrabruna, Pieve di Teco, Prelà, Rezzo in Provincia di Imperia. Il progetto prevede un impianto costituito da 32 aerogeneratori alti fino a 209 mt, in una porzione del territorio ligure tra le valli Arroscia, Impero, Argentina, Prino e San Lorenzo a prevalenza boscata. L’area, che interessa i crinali montani dei Monti Guardiabella, Moro, Croce, Follia e Pian delle Vigne, presenta una natura intatta e priva di industrializzazione, attrattiva per qualità della vita e opportunità turistiche. Offre habitat naturali a favore di ecosistemi floro-faunistici molto particolari in un territorio valorizzato dal riconoscimento di ben quattro siti della Rete Natura 2000, Zone Speciali di Conservazione (ZSC), sottoposti a tutela speciale; per i quali nel progetto sono omesse le necessarie Valutazioni d’Incidenza.

Grave l’impatto paesaggistico, economico sociale, agropastorale, archeologico, storico e culturale, avifaunistico, idrogeologico, il contrasto agli incendi boschivi, l’elisoccorso.

Di fronte alle contraddizioni e alle omissioni del progetto in questione numerosi soggetti hanno presentato osservazioni (entro i tempi ristretti della fine di agosto!) per denunciare i pericoli della realizzazione dell’impianto sul territorio circostante, ognuno per le diverse specificità. Un rischio che deriva da una politica energetica più interessata a raggiungere nuovi traguardi in fatto di produzione che a tutelare il paesaggio, evitare la sottrazione di suolo e l’alterazione di aree naturali o di zone montane, comunque incompatibili con insediamenti di tipo industriale. Peraltro in un territorio, nell’estremo ponente ligure, per il quale già i dati forniti dall’Atlante eolico italiano non evidenziano particolari attitudini allo sfruttamento energetico, in termini di ventosità e producibilità specifica. Ma soprattutto si è rilevato che gli enti locali e le comunità sono rimaste all’oscuro del progetto. Ne deriva una proposta avulsa dal territorio, in disarmonia con il contesto paesistico, che mina la tutela dell’ambiente e la qualità della vita.

La conversione alle fonti rinnovabili è e sarà essenziale per contrastare i danni al clima del petrolio e del metano, ma deve essere condivisa con chi in quel luogo vive e in armonia con il territorio su cui insiste. Le soluzioni alternative ci sono.

Daniela Cassini e Mauro Giampaoli

Industria e commerci savonesi tra Medioevo e Età Moderna

Savone pays du Roi. La diversità ligure nell’Italia comunale (10)

La straordinaria fioritura civile in Italia e Fiandra, avanguardie dello sviluppo europeo all’uscita dai secoli bui, vede assurgere a paradigma il modello comunale – da Bruges ad Anversa, da Firenze a Milano – in cui il discorso pubblico assume un ruolo decisivo, accompagnato dalla messa a punto di un nuovo pensiero politico: il repubblicanesimo civico, di cui sono campioni i giuristi della scuola di Bologna; con padre Dante supremo promotore. Una crescita vigorosa che si diffonde in tutto il centro-nord della penisola, fatta eccezione delle due città liguri; dove la priorità dell’interesse economico relega nella marginalità qualsivoglia dibattito sul reggimento della cosa pubblica. Un rifiuto che qui diventa mentalità; contagiando nelle pratiche di arricchimento da vil meccanici la stessa nobiltà feudale. A riprova di un concetto di aristocraticità del tutto atipico. Sicché, nel tempo a venire, i loro contemporanei si interrogheranno a lungo su questo strano ceto protagonista dello sviluppo materiale. In effetti, un nobile francese (o milanese) dell’epoca avrebbe considerato “l’attività mercantile derogante allo status nobiliare”.

Ma a Genova tutto ciò viene esplicitato senza infingimenti (“genuensis ergo mercator”, il motto che sintetizza lo specifico locale; la cessione dell’amministrazione civica al Banco di San Giorgio per concentrarsi sulla priorità del mercatare); a Savona lo si pratica senza remore. Per cui un grande storico del Novecento scriverà che «se mai esiste una città diabolicamente capitalista, assai prima dell’età capitalistica europea e mondiale, è proprio Genova, opulenta e sordida». Lo stesso dicasi per la sorella minore a ponente; che usufruisce dei vantaggi di poter operare all’interno del Commonwealth genovese. Con una differenza: se nella città maggiore le figure trainanti sono quelle dei mercanti e poi dei banchieri, nella minore svolge un ruolo determinante quella dell’artigiano. Già nell’X secolo Savona si segnalava per la fabbricazione del sapone, in quello successivo saranno i mastri d’ascia a connotarne lo sviluppo competitivo nel campo delle costruzioni navali. Per cui all’epoca si costruivano sulle spiagge tra Savona e Varazze i migliori scafi del tempo. Una tradizione apprezzata in tutto il Mediterraneo: nel 1432 un’ambasciata etiopica si recò a Pera per ingaggiare tecnici navali. L’ottavo paese, dopo Inghilterra, Francia, i tre Regni iberici, Turchia e Persia, la cui flotta fu opera degli artigiani liguri (Continua).

Pierfranco Pellizzetti

Che ne è delle mie estati savonesi?

Estati come questa inducono a confronti con quelle lontane nel tempo.

Ricordi di vita in Liguria incorniciati nella memoria in immagini che non sbiadiscono, impresse nei sensi più che nei pensieri. Chi non riconosce quella sensazione mediterranea al solo citare “un rovente muro d’orto”? Chi non ricorda certe mattinate infantili al mare, spazzate da una tramontana che rendeva il cielo di un colore denso, che entrava negli occhi e vi rimaneva fino all’ora che volge al desio?

Giornate intense e asciutte, con il caldo che teneva ancorati a terra, come dicesse: non muoverti, ascolta dove sei, guardati intorno, ricorda quello che vedi, tienilo per te.

Certe serate ai giardinetti a rincorrersi con gli amici, cadere nell’erba – ché allora esistevano ancora aiuole cittadine erbose frequentabili, le passeggiate nel verde alla ricerca di lucciole.

Molti anni dopo, una ventina d’anni fa, una serata a salire da via Burlando verso San Pantaleo, camminammo circondati dalle lucciole per tutto il percorso, non era banale definirla un’esperienza mistica, poi chi le ha più viste, tantomeno in città?

Ma da bambini e bambine vivere in Liguria d’estate negli anni ‘50/‘60 era un’esperienza straordinaria. Io avevo una doppia vita e una doppia compagnia: quella del Miramare di Savona, che non c’è più, dove chi aveva una barca aveva anche una baracca per gli attrezzi con un piccolo dehors dove si poteva stare fino a sera; l’altra, ai bagni Umberto, alle Fornaci, che allora erano il corrispettivo modesto dei Lido di Genova. Modesto per modo di dire perché vi affluivano le famiglie dei dirigenti milanesi e torinesi, che lì vicino avevano le residenze estive.

Il Miramare era il luogo dell’avventura: lì con gli amici andavamo a rompere le scatole a bouse e gigie, con l’eccitante sensazione di sentirci afferrare la mano da un polpo curioso. Perché lì non c’era sabbia, solo sassi e scoglietti. Eravamo letteralmente in porto, eppure ci facevamo il bagno. Immaginiamo oggi fare il bagno in porto!

I Bagni Umberto erano il luogo dei giochi sulla sabbia: correre a piedi nudi era molto più comodo e si potevano fare lunghe piste (mi toccava spesso offrire le natiche per essere trascinata per i piedi all’uopo) su cui giocare a biglie, ma non le vedrolle, quelle di vetro, no, quelle più grosse di plastica con dentro la foto dei ciclisti del tempo. A me toccava Anquétil: mi piaceva con quei capelli biondi tirati all’indietro. La sera, i lavaggi per tirar via tutta quella sabbia, ma manco con la striglia.

Maura Rossi

SUGGESTIONI DI LIGURIA

Bellezze dimenticate da riscoprire

Margherita di Brabante e un altro Medioevo

Giovanni Pisano "Elevatio corporis di Margherita di Brabante"

È nuovamente possibile visitare il Museo di Sant’Agostino a Genova, in un allestimento ancora parziale che consentirà nei prossimi mesi una fruizione ben più ampia dei molti altri tesori ancora celati. L’opera più iconica è il monumento funebre di Margherita di Brabante scolpito da Giovanni Pisano: l’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, incoronato a Roma nel 1313, si recò a Pisa dove lo colpì un ritratto che Giovanni stava terminando e gli commissionò il monumento funerario della sua sposa Margherita; morta a Genova a 36 anni nel dicembre 1311 a causa della peste. Il Pisano, considerato unanimemente il più grande scultore dell’epoca, accettò grato non avendo mai ricevuto committenze per un sepolcro. Non aveva conosciuto Margherita, quindi si basò sulle cronache che la descrivevano “piccola, minuta, con un viso tondetto quasi infantile, illuminato da due occhi come gemme”. Le venivano attribuiti miracoli e la Chiesa l’aveva proclamata beata. Nessuna sorpresa che l’Imperatore volesse farle erigere un cenotafio. Per l’opera, da collocare nella Chiesa di S. Francesco in Castelletto, venne pattuito un compenso di 80 fiorini d’oro. Dalle fonti sappiamo che Giovanni pensò ad una serie di figure ascendenti verso l’alto, alla cui base pose le virtù cardinali, Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza, sormontate da cinque statue di dolenti con il compito di reggere il sarcofago contenente la salma. Ma il fulcro dell’opera era l’”elevatio animae” della regina, con tre figure svettanti verso l’alto: l’anima, raffigurata come una giovane donna, velata e col soggolo secondo la moda aristocratica tedesca, cinta della stola simbolo di immortalità, aiutata da due angeli nell’ascesa al cielo. Il tema della morte viene gestito dal Pisano in modo nuovo e con una tensione dinamica: l’assunzione di Margherita rivela la spinta verso l’ultraterreno, trasfigurata nell’espressione estatica del viso. Una bellezza moderna, spirituale e sensuale, un ovale perfetto con le labbra morbide e la bocca dischiusa in un’espressione di stupore; con lo sguardo quasi incredulo, ma grato. Purtroppo Arrigo VII morì il giorno prima che Pisano firmasse il contratto, ma fu comunque tumulato accanto alla sua diletta sposa, a coronamento di un grande Amor Cortese. Ad oggi i pochi frammenti che rimangono (ritrovati grazie allo scultore Santo Varni nel 1874 nella Villa Brignole Sale di Voltri) sono ancora in grado di evocare la meraviglia infinita di una scultura strepitosa e affascinante.

Orietta Sammarruco

GENOVA MADRE MATRIGNA

Al centro di una regione centrifuga e laconica

Le campagnette dei genovesi, ricordi della Bella Estate

Michele Mari sogna “un mondo di gente silenziosa, triste ed implosa”, dove non esistano “happy hour, feste di laurea, di compleanno, feste aziendali, cazzeggi, risse, ubriachi”, dove la cosa più vicina all’idea di Paradiso è “chiudersi a casa col coprifuoco, mangiare una minestra di cavolo ascoltando Brahms”. Ho adorato questo suo articoletto, così condivisibile dopo l’abboffata di vacanze al mare da cui sono scappata per rifugiarmi fra i prati e i boschi della mia campagnetta. In fondo sono assolutamente genovese e, come i genovesi insegnano saggiamente da secoli, la vera vacanza deve essere nella natura, vicina alla città, nella casa di famiglia e con gli amici d’infanzia. Ed ecco i borghi contadini del nostro entroterra arricchirsi nell’800 di sobrie ed eleganti ville dei signori genovesi- per lo più borghesia imprenditoriale – in lunga e squisitamente monotona villeggiatura. Nulla può competere con l’alta Val Polcevera, con la Valle Scrivia e la Valle Stura. L’over tourism così di moda, con la sua forza ignorante che uccide le nostre città d’arte, il suo horror vacui che riempie di insopportabili cianfrusaglie il nulla della natura, ci porta a barricarci dietro la porta delle nostre eleganti campagnette. Savignone, Crocefieschi, Montoggio, Torriglia, Masone. Piccole ville dai muri spessi di pietra, porte basse, pessima connessione Internet. Orti e minestroni tutte le sere. Passeggiate in stradine sterrate nei boschi, more e funghi, bambini sfreccianti in libertà come uccelli, profumo di stalle e letame. Furtivi e discreti, lupi, cinghiali, vipere e caprioli. Le ville dei nostri nonni si inserivano senza traumi stilistici o forzature progettuali nella campagna circostante, rispettavano il paesaggio agricolo arricchendolo di siepi di acero, biancospino e corniolo; rispettavano i noccioli, i castagni, i rovi di more ed i prati a perdita d’occhio, inserendo con garbo qualche campo da bocce e tennis. E che dire del ritrovare, vicino agli 80 anni, gli stessi amici con cui giocavi a bandiera e a pallone a cinque anni, con cui ti sei menato a pugni per difendere la casetta sull’albero, con cui hai giocato, barando, a ‘baci pugni e schiaffi’ o guardia e ladri? Nessun rapporto adulto può competere con questa fratellanza, che solo una lunga vacanza stanziale può costruire; soprattutto se depauperata da ogni orpello, ridotta alla sua elegante e minimale assenza ed al vuoto assoluto che attende di essere riempito dalla fantastica avventura della libertà.

Marina Montolivo Poletti